La pandemia è una “accelerazioni della storia” (come definito dallo storico israeliano Yuval Harari) ed è importante quindi concentrarsi su dinamiche che già prima della pandemia presentavano una storia virtuosa.

Accelerazioni in corso: la purposeful business transformation

di Michele Costabile, Professore Ordinario di Marketing e di Entrepreneurship nell’Università Luiss di Roma, dove dirige il Centro di Ricerca su comportamenti economici e tecnologie “Luiss-X.ITE” e coordina le attività di Luiss Alumni 4 Growth (LA4G), un “benefit investment club” dei laureati Luiss a sostegno di start-up collegate all’Università.

Per molteplici ragioni - soprattutto reali ma, in parte, anche di rappresentazione mediatica e politica – da alcuni mesi viviamo immersi nelle riflessioni sugli effetti della pandemia.

E in particolare sulle analisi di “quanto ci ha cambiati” o “quanto ci sta cambiando” e, infine, di “quanto ci cambierà”.
Sul tema purtroppo siamo stati, seppure con diverse gradazioni, vittime di un uragano retorico che ha prodotto molta confusione e poca consapevolezza. Consapevolezza che dovremmo, invece, recuperare e accrescere così da concentrare attenzione e sforzi sui grandi cambiamenti che la pandemia sta accelerando e che potrebbero avere una portata molto ampia, in ultima analisi con saldi meno negativi di quanto l’emergenza – e i drammi ad essa connessi – facciano immaginare.

Insomma si tratta di sgombrare il campo dalla retorica dei balconi e delle canzoni, dalle retoriche nazionaliste del “siamo italiani”, “siamo i migliori”, “siamo un esempio” e dall’enfasi su forme di resilienza prive di scopo – “ne usciremo migliori” o “andrà tutto bene” – spesso peraltro fondate su affermazioni apodittiche sui disvalori delle imprese “capitalistiche” e del Mercato, ignorando ad esempio che quest’ultimo è, nella sua essenza, un’istituzione sociale originata (da alcune decine di millenni) dai comportamenti di collaborazione e scambio che hanno segnato l’evoluzione umana. Si tratta, dunque, di sgombrare l’area “core” delle analisi sugli scenari “new normal” o “next normal”, per concentrarsi sulle “accelerazioni della storia” (come le ha efficacemente definite lo storico israeliano Yuval Harari). Accelerazioni che sono visibili senza sforzi oracolari e sono, appunto, tendenze emergenti che la pandemia rende “mainstream”.

Ebbene fra le accelerazioni in corso merita estrema attenzione quella che si registra nella dinamica del finalismo d’impresa, inteso quale processo di continua ricerca e, di conseguenza, di continua definizione e ridefinizione del senso di ruoli individuali, organizzativi, imprenditoriali, sociali e istituzionali. È una dinamica che, con specifico riguardo alle attività d’impresa, era in corso già da alcuni decenni con fenomeni di primaria portata quali la CSR (Corporate Social Responsibility) ovvero con crescenti attenzioni e investimenti su progetti di ERS (Ethics, Responsibility and Sustainability), oggigiorno visibile per la centralità nelle decisioni aziendali in tema di “impatti” ESG (Environment, Social and Governance). Ed è una dinamica che, come intuibile, l’emergenza sanitaria, economica e sociale determinata dalla diffusione pandemica del Covid-19 ha intensamente accelerato.

In questa prospettiva tematica e temporale, si può oggi parlare di una accelerazione del processo di trasformazione “finalistica” del business – in tal senso purposeful business transformation - e quindi tanto dell’essenza della c.d. corporate governance quanto del comportamento quotidiano di individui e organizzazioni - ché nulla è più operativo di una buona governance esattamente come nulla è più pratico di una buona teoria -.

Le “imprese finalistiche”, in questa logica, sono tutte quelle che sono coinvolte con la massima priorità, finanziaria e organizzativa, sull’identificazione e lo sviluppo di conoscenze, atteggiamenti e comportamenti idonei a configurare un vero e proprio fine trascendente delle imprese. Un fine cioè che trascende i confini organizzativi correnti e i convenzionali obiettivi di performance economico-finanziaria, contaminando le pur fondamentali misure di performance del valore con misure di “valore-obiettivo” esterne, ossia riferibili a una o più categorie di stakeholder ambientali, sociali o istituzionali.

Un fine aziendale così ridefinito, quindi, si traduce in obiettivi di performance non convenzionali su temi sociali o ambientali, tali da informare e trasformare la cultura aziendale e, di conseguenza, i comportamenti quotidiani di persone e organizzazioni. Perché la “purposeful business transformation” funzioni, però, gli obiettivi e i fini a cui questi sono logicamente – o meglio ancora causalmente – collegati devono avere la natura di vere e proprie durature “ragioni di essere”, ossia ragioni che ne giustifichino l’esistenza dell’impresa in termini di contributo sociale che ne deriva. Una sorta di cartina al tornasole di quanto fini e obiettivi funzionino come trasformativi è dato dalla misura del coinvolgimento emotivo del personale aziendale sui fini aziendali e dai differenziali negativi di “short-terminism” e positivi di “long-terminism” che si registrano prima e dopo i principali investimenti trasformativi.

 

Seppure in apparenza semplice da definire (e per certi versi pure da misurare) il “finalismo aziendale” ha un pesante contrappeso nella difficoltà realizzativa, ossia nel passaggio dall’enunciazione dei princìpi alla realizzazione incisiva e duratura. Perfino quando le evidenze empiriche dimostrano che uno sforzo in questa direzione ripaga tutti e sotto tutti i punti di vista.

Una recente meta-analisi riportata sul McKinsey Quarterly, per esempio, chiarisce che il 63% delle scelte aziendali guidate dai modelli di ESG ha generato un ritorno sul valore aziendale positivo, e solo l’8% ha invece avuto un ritorno negativo.

E, seppure con approcci più aneddotici, costituisce di certo una significativa evidenza di questa trasformazione in corso la dichiarazione di Larry Fink (CEO di BlackRock) che chiarisce come un orientamento “lungo e ampio” sarà inevitabile e vincente anche in termini di ritorno economico. “Ogni impresa dovrebbe non solo preoccuparsi di realizzare buone performance economico-finanziaria ma anche di dimostrare come e quanto sta contribuendo a generare una positiva performance per il contesto socio-ambientale in cui opera”: dichiarazione subito condivisa da centinaia di CEO e declinata con riferimento alle principali categorie di stakeholder: clienti, dipendenti, fornitori, comunità e azionisti/investitori.

La trasformazione finalistica delle imprese è ben visibile anche nel nostro Paese e l’emergenza Covid-19 ha reso, in questi drammatici mesi, ancora più esplicito l’impegno dei vertici di molte imprese in questa direzione. Molti sono stati costretti a intervenire accelerando la trasformazione tecnologica delle loro organizzazioni – la più evidente e trasversale delle quali è stata certamente quella digitale – ma contemporaneamente anche quella della finalizzazione, immaginando ovvero re-immaginando il loro futuro. Un futuro che, è ormai ben chiaro a tutti, non può esistere senza stakeholder vivi e sani (parafrasando il titolo di un famoso brano dei Simple Minds).

La pandemia ha distrutto la salute pubblica e danneggiato significativamente strutture e infrastrutture sanitarie, economiche e sociali. In questo clima di generalizzata incertezza, per molte imprese prendersi autenticamente cura del benessere dei loro stakeholder è stata una reazione quasi istintiva. Una indagine condotta da Kantar (primario istituto di ricerca globale, partecipato dal gruppo WPP) ha mostrato che l’80% di un campione formato da oltre 35.000 persone intervistate su scala globale ha valutato con cura estrema il comportamento delle imprese verso i propri dipendenti, e la cura che queste hanno mostrato per garantire adeguati livelli di sicurezza e benessere. Del resto ben il 78% ha dichiarato di attendersi sensibilità e reattività delle imprese verso il welfare dei propri stakeholder, dipendenti in primis, considerando pure con cura l’effettiva “conversione” di intenzioni e dichiarazioni in effettivi ed efficaci comportamenti di cura. Analogamente il 45% dei clienti ha mostrato altissima attenzione alla cura della sicurezza nei rapporti con le imprese, considerando una sorta di dovere il loro impegno alla sicurezza, prioritario rispetto a convenzionali offerte vantaggiose per i clienti quali sconti e altre iniziative promozionali.

L’impegno ad accettare e “giocare” sfide sociali è stato senza precedenti. Ferrari, Armani, Decathlon e Bulgari sono solo alcuni esempi di imprese che hanno riconvertito con immediatezza le loro attività caratteristiche, sostenendo un impegno economico e organizzativo davvero significativo, per accrescere la disponibilità di ventilatori, mascherine, dispositivi di protezione professionali, disinfettanti, ecc.

Ecco quindi che la pandemia ha accelerato comportamenti ed evidenze del c.d. “capitalismo consapevole” (come già da tempo l’ha definita Raj Sisodia).

Comportamenti, è bene chiarirlo, che sono ancora tutto sommato limitati per numero e intensità ma che di certo diventeranno ineludibili e pervasivi e sui quali, quindi, vale la pena chiarire due fondamentali “princìpi” dai quali muovere per una efficace “purposeful business transformation”.

  1. La purposeful transformation non è “naturale” né facile, bensì richiede metodo e sacrifici sia economici che cognitivi. Anzitutto, per esempio, è importante chiarire e misurare il bilanciamento delle performance convenzionali e “finalistiche”. Il 33% dei manager intervistati di recente da McKinsey ha riportato una forma di dissonanza percepita fra le finalità ampie e lunghe e gli obiettivi di performance convenzionali; mentre il 72% dei dipendenti si attende che le finalità ampie e lunghe siano valutate come più importanti dei convenzionali obiettivi economico-finanziari. La sfida di ciascuna singola impresa, quindi, è anzitutto quella di scegliere fini e ragion d’essere coerenti con la natura, la storia e la cultura aziendale, definendo una mappa causale che chiarisca bene come nella quotidianità, e non solo nelle ovattate board room, vi sono percorsi di integrazione fra obiettivi economico-finanziari di breve e performance di lungo periodo; e come queste ultime di fatto rigenerano la capacità di raggiungere migliori obiettivi economico-finanziari di breve periodo anche in prospettiva intertemporale. Richiamando l’espressione usata da Brand Bird di Pixar: “i soldi sono come il carburante per un razzo, ma prima di lanciare qualunque razzo bisogna capire dove si vuole andare. E i luoghi più belli e motivanti per le organizzazioni in cui andare sono finalità sociali e ambientali che distinguono la ragion d’essere di una organizzazione, rendendola unica”. È un lavoro, insomma, di alta capacità politica, in grado di bilanciare interessi sociali correnti e prospettivi; interessi dei dipendenti e dei clienti, dei fornitori e dei partner. Ed ecco che la capacità di scegliere e definire priorità, rifuggendo la genericità delle finalità sociali o ambientali per declinare quelle che davvero sono coerenti con il business dell’impresa è il primo passo nella giusta direzione. Insomma, l’accelerazione in corso è verso un finalismo trascendente ma al contempo “corporate-related”, che consideri quindi il patrimonio storico dell’impresa, la sua identità, le sue priorità strategiche e quindi renda il fine autenticamente “organico” all’impresa che lo adotta.
  2. Una volta definito il fine e il processo “finalistico” di trasformazione aziendale diventa fondamentale far evolvere nuove routine organizzative. Routine che rendano il processo di sense making sempre più e meglio interconnesso a dinamiche di generazione del valore aziendale; e, per converso, il processo di generazione e diffusione di valore aziendale sempre di più e meglio rivolto alla definizione e all’attribuzione di senso alla propria esistenza professionale e aziendale. Per questa ragione, la riflessione sulle ragion d’essere delle aziende ben oltre i confini convenzionali delle organizzazioni, e in tal senso la “trascendenza” imprenditoriale e organizzativa, ossia la finalità di contribuzione al bene comune, deve diventare un esercizio sistematico e quindi una vera e propria routine. Ben consapevoli che la purposeful business transformation è complessa e rischiosa, oltre che costosa. Si rischia, per esempio, di essere percepiti come opportunisti o inautentici, indifferenziati e quindi “anonimi”, anche dopo aver sostenuto investimenti rilevantissimi sotto il profilo finanziario e organizzativo - con la conseguenza di generare vere e proprie frustrazioni ovvero nevrosi organizzative. Per mitigare tali rischi, quindi, è fondamentale progettare con metodo la fase di “sensing” su business (identità e patrimonio storico aziendale), mercato e stakeholder (attese e convergenze di valori e finalità), preparandosi a una continua manutenzione evolutiva del “business purpose”. Lo sforzo di definizione del finalismo aziendale, infatti, se ben progettato diventa il fondamento della valorizzazione dell’impresa nel tempo. E sul punto vale la pena concludere richiamando l’idea magistralmente presentata da Jorge Luis Borges nel suo capolavoro dal titolo “Storia dell’Eternità”. Borges, infatti, spiega bene che l’Eternità è una fondamentale rappresentazione sociale, intuibilmente insuperabile in quanto a orientamento di lungo periodo; inventata dagli uomini per affrontare con adeguata energia il sacrificio del quotidiano domani. Ecco che in perfetta analogia, la costruzione e la rigenerazione di senso attorno a un fine ampio e lungo per l’impresa, produce quel valore fondamentale che è rappresentato dall’energia degli individui e delle organizzazioni che realizzano beni e servizi sempre nuovi e di valore. Quei beni e servizi di cui abbiamo bisogno per costruire e vivere in un mondo migliore.

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