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Cari genitori, smettetela di essere iperprotettivi

La scelta di far portare da casa il pranzo al proprio figlio non andrebbe garantita all'interno della scuola pubblica, dove il primo principio che andrebbe insegnato ai bambini è quello dell'uguaglianza

Cari genitori, smettetela di essere iperprotettivi

Dico no alla «schiscetta». Può sembrare che appartenga alla categoria del futile la discussione nata a Milano e in altre città sul sedicente diritto degli scolari di portarsi il pasto da casa, ma non lo è. E ricordo gli argomenti della polemica: da una parte la «libertà di scelta» rivendicata da alcuni genitori, dall’altra il diniego del Comune, che non solo considera importante la condivisione di pasti uguali, ma evoca anche la responsabilità sulla sanità e qualità del cibo, che fa capo alle strutture sanitarie della città, perché sono esse a concordare le forniture dei cibi e a sorvegliare le mense scolastiche.

Da registrare il primo esito della battaglia, che il Comune ha definito «ideologica»: bambini che arrivano con il loro pacchetto, e vengono lasciati a mangiare in classe sotto la sorveglianza di un insegnante. Di qui, pianti, disagio e lo spettro della discriminazione, con la denuncia della violazione di quella libera scelta che sembra diventata uno dei totem della nostra epoca. A costo di attirarmi i fulmini di tante critiche, mi sembra che sia arrivato il momento, partendo da questa piccola vicenda, di dire a padri e madri che la devono smettere di allargare sui loro figli uno smisurato ombrello di iperprotezione. È giusto che da parte delle famiglie si sorvegli attentamente la qualità delle mense scolastiche a un prezzo equo e accessibile, è sbagliato che si pretenda di sostituirvi il pomodoro «bio» e la frittatina confezionata con le uova a chilometro zero, oltre naturalmente ai cibi che più ingolosiscono il bambino.

Non pretendo certo per gli scolaretti un trattamento e una disciplina da militari, ma penso che nel momento in cui l’età anagrafica li porta a contatto con le strutture e le istituzioni della società, debba fare un passo indietro quella istituzione troppo pervasiva che è la famiglia, che negli anni - in Italia, almeno - dimostra di non rinunciare mai ad essere l’opzione primaria. È un grande sbaglio, che rischia di far crescere i figli nell’illusione di avere davvero un «diritto di scelta», e di sviluppare più tardi un’enorme frustrazione quando incominciano a giocare la difficile partita della vita. E poi, devo dire che in questa polemichetta sono state dimenticate alcune cose importanti. Per esempio, il fatto che per le famiglie più povere il pasto alla mensa scolastica è un aiuto per garantire al bambino un discreto nutrimento almeno una volta al giorno. Se all’insegna dello slogan «liberi tutti» incominciano ad arrivare a scuola cibi costosi e golosi, si creeranno subito due caste sociali: chi si deve accontentare di quel che passa il convento, e chi scartoccia con soddisfazione il ricco spuntino preparato a casa, magari da una madre che lavora, e che per malinteso spirito di sacrificio si alza mezzora prima per apprestare la «schiscetta».

Quindi ripeto il mio no a questa rivendicazione di un diritto che non può e non deve esistere nella scuola pubblica, dove i bambini devono apprendere il principio che li fa uguali e li fa cittadini. Fosse per me, non avrei nemmeno abolito il grembiulino, ormai scomparso da molte scuole elementari. E non l’avrei abolito per l’ottimo motivo che protegge i vestiti, e che almeno per qualche ora nasconde le differenze tra chi indossa la miglior produzione del baby fashion e chi ha la felpetta comprata al mercato. Un’illusione, d’accordo, che dura fino al momento di mettersi il cappottino. Ma almeno ci si prova, con il permesso dei padri che già hanno parcheggiato l’auto in seconda fila, e aspettano l’adorato rampollo.

Umberto Veronesi



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