L’agricoltura italiana deve pensare in grande
Per rispondere alla crescente domanda di cibo, occorre innanzitutto mettere al bando le utopie
Le sfide climatiche, sociali, ambientali e alimentari rivolte all’agricoltura su un Pianeta sempre più popolato, richiedono analisi disincantate ed accurate. Nutrire gli abitanti, che raggiungeranno nel 2050 i dieci miliardi, richiede un aumento fino al 70 per cento della produzione agricola, sempre più complesso da ottenere con un clima che si fa ogni anno più torrido.
Termini come «sostenibile», «responsabile», «ecocompatibile», «chilometro zero» non sono altro che autocertificazioni o specchietti da scambiare con oro, come abbiamo fatto scoprendo i nativi americani cinque secoli orsono. Sono termini di chi cerca di vendere il proprio prodotto e che ne ha abusato per anni senza mai far ricorso ad analisi crude, impietose e oggettive: chi fa l’arbitro non può al tempo stesso essere uno dei giocatori. Cosa vuol dire sostenibile? Chi ha mai fissato un valore di emissione di gas serra per ogni oggetto, alimento, procedura? Cosa vuol dire responsabile? Facciamo un esempio concreto per spiegare questa l’immensa complessità in cui con tanti galli a cantare non spunta mai il giorno.
Alcune analisi affermano che per produrre un chilo di carne bovina servono tra cinque e quindicimila litri di acqua. Sia chiaro che questa non è acqua sprecata, ma utile a nutrire il terreno, la vita nei suoli e aiuta le piante a crescere e catturare tantissima anidride carbonica. Bene, ma quale è l’emissione di gas a effetto serra? Secondo alcuni autori, per un chilo di carne rossa si immettono in atmosfera quattro volte più gas serra che per un chilo di pollo, sette volte più di un chilo di uova e dieci volte più per l’equivalente di riso, noci o broccoli. Ma una vacca che pascola su un prato incolto, come quelle delle malghe dolomitiche, emette relativamente pochi gas serra mentre le altre mangiano foraggi acquistati, mais per metà di provenienza estera e soia quasi tutta sudamericana. Poi le vacche che pascolano producono molto meno (forse la metà) di quelle stanziali. Non solo, le vacche emettono anche gas metano che ha un notevole impatto come gas serra, ma dipende da che dieta consuma, chi sia il veterinario nutrizionista, qual è la sua flora microbica del rumine, dove si trova e cosa mangia. Insomma quante emissioni costa la produzione di un litro di latte di vacca nutrita con mangimi, all’alpeggio, su lande desolate oppure fatta crescere su verdi colline erbose dove c’è abbondanza di precipitazioni?
Siamo proprio sicuri che il tanto reclamizzato «chilometro zero» voglia dire meno emissioni di gas serra? Le vacche cresciute lungo il Po forse fanno latte a chilometro zero, ma i loro mangimi di chilometri ne hanno fatti a migliaia. Uno studio di pochi anni fa dimostrava che consumare a Pasqua in Europa un agnello neozelandese è due volte più sostenibile che allevarlo in Germania con stalle riscaldate e mangimi d’importazione che arrivano da Paesi distanti 7-8 fusi orari. Così anche il concetto di chilometro zero risulta autoreferenziale, mentre andrebbe pesato e certificato da organismi terzi. E poi che peso ambientale attribuire al letame di quelle vacche (poi impiegato come fertilizzante) e quanti gas serra hanno prodotto le farine animali derivanti dagli scarti di macellazione delle carcasse di quegli animali? Se un chilo di bistecca impiega quindicimila litri di acqua, un chilo di farina da scarti di macellazione di quella stessa vacca che ha prodotto la bistecca, quanti gas serra ha generato? E con quelle farine animali si fertilizzano i campi soprattutto coltivati ad agricoltura biologica: ma allora l’agricoltura bio è davvero logica? Sia chiaro che i fertilizzanti azotati di sintesi consumano un fiume di combustibili fossili, ma quanto pesano su ogni chilo di broccoli prodotti? E coltivare zucchine, melanzane e peperoni (o fragole) in questa stagione, richiede che si riscaldino le serre col gasolio: quale è il costo in gas serra di un chilo di zucchine cresciute a giugno in pieno sole o a marzo scaldando le serre?
La soluzione a tutte queste complessità, a oggi, non l’abbiamo, a meno di radere al suolo ogni area incolta, foresta, parco o riserva naturale per coltivare ovunque ed aumentare la produzione complessiva. Ma così non si avrebbe alcuna riduzione del consumo di suolo, di emissione di gas serra o contenimento della richiesta di ulteriori risorse idriche. Qualcuno millanta che il ricorso all’agricoltura biologica sia la panacea di tutti i mali. Forse dei mali personali, ma di certo non secondo i dati prodotti da chi studia da anni queste ipotesi e che appartiene ad una Istituzione di ricerca che propugna il massiccio ricorso al biologico. Il gruppo di ricerca di Adrian Muller, nel 2017, ha dato alle stampe la sua strategia, pubblicata sulle colonne della rivista Nature Communications. Il lavoro - tra i più citati da chi sostiene il passaggio all'agricoltura biologica, a partire dal presidente di Federbio - ipotizza vari scenari e diversi impatti dai cambiamenti climatici in corso, usa come punto di riferimento le annualità 2005-2009 e mostra come il passaggio a varie percentuali di coltivazioni biologiche sia, in alcuni casi e a molte condizioni, più vantaggioso rispetto alle emissioni prodotte nel periodo usato come pietra di paragone. Allora la strada del biologico è, almeno in parte e sotto varie condizioni, una strada virtuosa?
La risposta è semplice: no, assolutamente no. Negli scritti di Muller si spiega che, pur essendoci alcuni piccoli aspetti virtuosi, il passaggio a un'agricoltura totalmente biologica (cosa di per sé irrealizzabile) causerà: un aumento dell’uso di terra (tra il 16 e il 33 per cento), della deforestazione (tra l’8 e il 15 per cento), della emissione di gas serra (8-12 per cento) e del consumo di acqua (sessanta per cento). Il ricorso all’agricoltura biologica è in questi termini insensato, dannoso e miope. La verità è che il metodo biologico applicato indiscriminatamente in Italia è solo un grido di dolore delle aziende agricole nazionali che producono vendendo al di sotto dei costi strutturali e cercano vie alternative per aumentare i margini e non dover chiudere. L’agricoltura biologica è un grido di dolore degli imprenditori agricoli che, come spiega il rapporto di Nomisma sull’agricoltura 4.0 - con un dibattito che si può rivedere qui - sono mediamente troppo piccole, condotte da agricoltori troppo anziani e impreparati a gestire nuove tecnologie, automazioni, meccanizzazioni, droni e piante migliorate dalle nuove tecnologie. La frammentazione arriva a dimensioni tali da doverla definire orti mascherati e non campi agricoli. Si arriva a casi estremi di aziende in Friuli che coltivano mais biologico su 240 metri quadri, esattamente come l’orto che io zappo a mano nel weekend: sostenendo queste pratiche, come si accinge a fare il nostro parlamento col Decreto Legge 988 finanziato con 963 milioni di euro, non si va da nessuna parte.
Piccolo non è sempre bello, soprattutto se coniugato con mancata innovazione, inseguendo solo il profumo delle sovvenzioni pubbliche che saranno sempre più scarse ed aleatorie. Se poi, come sta facendo col Decreto 988, ci si spinge fino a sostenere le pratiche esoteriche dell’agricoltura biodinamica (svolte da 400 imprese in Italia sulle 400mila esistenti) vuol dire che abbiamo deciso di rinunciare a fare agricoltura e a sperare di avere un settore primario di produzione e di creazione di posti di lavoro a elevata professionalità. Il biodinamico è certificato da un marchio registrato estero e impiega organi di animali riempiti di vegetali con modalità da riti tribali tutte incompatibili con un approccio scientifico. Già oggi l’Italia non produce semi per la sua agricoltura, ma li importa tutti. Tra breve importeremo tutto quello che poi faremo finta di etichettare col marchio Made in Italy.
Il 15 marzo mezzo mondo ha marciato per il clima seguendo il flauto magico di un’adolescente svedese. Il peggior modo di tradire sogni e le ambizioni di questi giovani è non vedere che senza miglioramenti genetici delle piante non faremo altro che andare dritti verso crisi alimentari e sociali. I numeri sono sul tavolo, basta decidere di volerli leggere e volerli spiegare a un pubblico che ha sviluppato una sensibilità ambientale molto superiore a quella dei governanti. La soluzione più ragionevole si chiama agricoltura integrata, integrata di tutte le competenze possibili e disponibili. Integrata da tutti i mezzi meccanici, genetici o tecnologici che conducano ad una misurabile e oggettiva riduzione delle varie forme d’impatto ambientale. Ma un’agricoltura «disintegrata» dai lustrini e da tutte le ideologie ottocentesche.
Alla stesura del testo hanno contribuito:
Michele Lodigiani, Agronomo, Piacenza
Vittoria Brambilla, ricercatrice, Università Statale di Milano
Alberto Guidorzi, esperto sementiero e agronomo, Sermide (Mantova)