Alcol: la prevenzione non c'è e la cultura del bere dilaga
I dati dell'indagine Eurispes-Enpam riportano in copertina il problema del consumo degli alcolici
Qualche anno fa pubblicavo in questo blog una riflessione dal titolo «Perché i morti a causa dell'alcol non fanno notizia?». Tre anni dopo commentavo: «I morti di alcol contano se si sa come contarli». Nulla, comunque, poteva far presagire che nel 2018 ci si sarebbe interessati di morti da alcol per giungere a una stima di circa 43mila morti all'anno, rispetto a quella ufficiale di 17mila riportata nella Relazione al Parlamento redatta ogni anno dal Ministro della Salute.
Dire che ogni giorno circa 50 persone muoiono a causa dell’alcol è già rilevante, arrivare a quasi 120 agghiacciante. Gli estensori del report sull’alcolismo dell’Osservatorio permanente Enpam-Eurispes hanno lanciato come notizia centrale la stima di 435mila morti causati dall’alcol in Italia in circa dieci anni. Sarà vero? Non lo so, i calcoli non li ho fatti io e non dispongo del modello o del calcolo. Personalmente, sarei incline a non crederci avendo passato e ripassato, letto, studiato e applicato tutti i modelli di calcolo della mortalità attribuibile all'alcol producendo dati perfettamente coincidenti con le modalità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dati ufficiali e formali, sempre stime ma supportate da una peer-review di gruppi di esperti internazionali indipendenti su dati prevalentemente governativi. Ma non mi sottraggo al piacere di imparare e ho chiesto - a oggi senza successo - dati e metodologia per arricchire la conoscenza ma anche per verificare quanto e perché questi morti non sono quanto quelli che siamo abituati a considerare. Se ci sarà una risposta di merito, ne informerò i lettori di questo blog e mi limito, sino ad allora, ad applicare l’astensione di giudizio anche perchè, alle fine, non pare che avere più morti causati dall’alcol interessi o scandalizzi più di tanto quanti dovrebbero.
Ma l’indagine ha anche altre interessanti caratteristiche che sollecitano più di qualche riflessione pur confermando dati già noti, tendenze già appurate da decenni dai sistemi di monitoraggio formali che dipingono una situazione in cui l’alcol, nella sua verificata pervasività in ampi strati della popolazione italiana, mantiene e consolida sempre più nel tempo una reputazione edulcorata di sostanza legale, pur tossica e cancerogena, sicuramente calorica e vettrice della più diffusa e complessa tra le dipendenze. Ma non stigmatizzata dalla società neppure nelle sue modalità di consumo dannoso o rischioso e anzi normalizzata persino nelle sue modalità di uso intossicanti - il binge drinking, il bere per ubriacarsi - che turbano la quiete pubblica, che oltraggiano le Forze dell’Ordine, che intasano i pronto soccorso ed è la prima causa di morte tra i maschi italiani di età compresa tra gli 11 e i 29 anni, prima causa di morte tra i giovanissimi alla guida di auto o motoveicoli ma anche di semplici pedoni vittime dell’evitabile adozione di comportamento ai rischi altrui. Vero è che «farsi una canna» è ormai diventato un fatto di costume, con «baby boomers» che legittimano i figli in comportamenti da «figli dei fiori» contribuendo all’interferita maturazione in senso cognitivo del loro cervello, ma l’alcol è l’unico fattore di rischio «legale» che espone a disabilità, morbilità e mortalità prematura sempre evitabili, a un rischio immediato e potenzialmente fatale, immediato, a fronte dell’errata interpretazione del bere anche per una singola e isolata occasione.
Di patenti che ritornano a casa senza i loro giovanissimi possessori se ne contano troppe, ma ancora poco si fa per rendere adeguati ed efficaci i controlli su strada che potrebbero arginare tale assurda mattanza. Controlli da garantire soprattutto nei locali di vendita e somministrazione per i quali la deterrenza di sanzioni rigorose e certe rappresentano un’opzione molto rara rispetto alla reale estensione del fenomeno della vendita e somministrazione di alcolici ai minori, che appare sotto gli occhi di tutti come poco sotto controllo considerati gli effetti misurati nei pronto soccorso: con 45mila intossicazioni in un anno, sicuramente sottostimati perché esperienza comune che la «sbronza» viene spesso gestita impropriamente secondo la prassi fai-da-te con tutti i rischi che ciò comporta. Violare la legge, non giriamoci attorno, è tollerato. Tollerato è sballarsi con l’alcol in pubblico, nelle discoteche, sulle spiagge a scapito del danno irreversibile dei neuroni e del fegato dei giovani, irrazionali per natura ma anche vittime di adulti e autorità «competenti» che non applicano la dovuta diligenza guidata dal dovuto principio di precauzione, invocato dalle norme a tutela dei minori e disapplicato senza scandalo persino da parte di molti genitori per i quali «lo fanno tutti», applicato indistintamente a «canne» e ubriacature, è il mantra che non infrequentemente si infrange sull’asfalto di una strada alle luci dell’alba del week-end.
Anche quando si giunge in Pronto Soccorso non si può sperare in un protocollo nazionale di gestione del caso che dopo l’intossicazione possa garantire adeguata assistenza di follow-up al malcapitato minore sprovveduto, inesperto gestionale e immaturo anche per il semplice metabolismo della molecola etanolo, usata per disinibirsi, per euforizzarsi e per trovare il coraggio di avvicinarsi alle droghe illegali, diffusissime nei luoghi di somministrazione e di aggregazione giovanile. Sono «mosche bianche» le iniziative di proposta di colloquio, di un controllo nel giorno successivo alla sbronza, in grado di verificare se si è trattato di una bravata o di un abitudine ricorrente da canalizzare verso un intervento di ascolto e prevenzione promosso dalle responsabilità e attese competenze degli adulti. Adulti latitanti nella pratica almeno quanto petulanti nel teorizzare comportamenti virtuosi poco praticati, non propriamente esemplari, che possono trovare espressione solo se integrati in un contesto sociale e sanitario di rete orientata a recuperare e impiegare gli anticorpi preziosi ed essenziali del controllo informale della società, quello che ha consentito per secoli la protezione capillare basata sulla condivisione della sconvenienza e della disapprovazione sociale del bere da parte dei minori. Ciò sino all’avvento del marketing e degli investimenti miliardari che hanno promossol’alcol come valore, come elemento di (falso) successo sociale e sessuale favorito dall’assenza di adeguati livelli di controllo e vigilanza.
Nessuna tutela reale e formalizzata ha preso forma neppure nelle scuole, che non hanno ancora nel 2018 un’ora di educazione alla salute per compensare le carenze degli adulti e delle istituzioni che, per assurdo, hanno legittimato l’accesso ai minori di quanti non alcun hanno titolo per formare i giovani nelle scuole al contrasto alla prevenzione del rischio correlato al consumo di bevande alcoliche, come di recente promosso con alcuni rappresentanti della produzione di alcolici ammessi e legittimati da dirigenti e da uffici scolastici regionali a svolgere progetti nazionali e incontri incentrati sulla cultura del «bere consapevole» nella storia. Iniziative che spetterebbero di diritto a chi di salute, nella salute, nella prevenzione ha mandato, ruolo e interesse primario e che della cultura del bere segnala giustamente che l’alcol è per molti ma non per tutti e soprattutto non per i giovani sino ai 25 anni, come ribadito dal Piano d’azione europeo sul bere di giovani e sul binge drinking 2016-2020.
Il Presidente dell'Enpam, nel presentare i dati del recente report Eurispes-Enpam, ha affermato: «Attraverso i dati della rilevazione, ci si rende conto della pericolosità di alcuni fenomeni sociali legati a una cultura dello sballo in via di costante diffusione». Allarme che da decenni le società scientifiche, l’Istituto Superiore di Sanità, le autorità regionali e il Ministero della Salute hanno lanciato ai medici che non risultano particolarmente attivi e partecipi alle iniziative di loro competenza e che dovrebbero consentire l’identificazione precoce e l’intervento breve, come in tutte le nazioni rispetto alle quali l’Italia è fanalino di coda per conoscenza e integrazione degli strumenti standardizzati di rilevazione del rischio alcolcorrelato come l’«AUDIT» (Alcohol Use Disorders Identification Test) e per attuazione dell’intervento breve, il colloquio motivazionale che in dieci minuti, nel consumatore identificato come «rischioso» riesce in un caso su 8 a riportare la persona a livelli di consumi compatibili con una situazione di gestione fisiologica di quantità meno «industriali» di alcol, grottescamente percepite «normali» per scarsa consapevolezza e informazione che ancora in Italia è da costruire, supportare e diffondere anche nell’arduo tentativo di contrasto alla logica imperante indotta dalla pubblicità diretta e indiretta che bere fa bene alla salute, che moderate quantità sono salutari in un approccio di diffusione di fake-news che vede i principali media sponsorizzati dal mondo della produzione.
Le recenti acquisizioni ed evidenze scientifiche hanno confermato che non esistono quantità sicure di consumo. «L’alcol è la sostanza che dà più dipendenza. Fenomeno in netta ascesa», come si legge nel documento di sintesi di Eurispes, è un'affermazione che si colloca tra le numerose altre (mi permetto di segnalare agli estensori) sulla breccia formalmente da decenni con dati e tendenze che vengono riportate annualmente in Parlamento e che è destinata a rimanere lettera morta? In molti temono di si, chi scrive tra quelli, tutti razionalmente convinti che è molto probabile che nulla cambi perché è e sarà sempre imposta e prevalente la falsa immagine patinata, seducente e positiva dell’alcol che fa felici (e ubriach,i per quasi sei milioni di italiani), quella che espone, più precocemente nel mondo, nostri giovani all’avvio dell’uso di alcol (tra 11 e 13 anni), che accomuna nel rischio quasi nove milioni di persone di tutte le età, che ha spostato verso l’uso fuori pasto anche gran parte degli adulti che sino a qualche anno fa ci «mangiavano su» (eravamo chiamati «wine eaters» all’estero) ignorando beatamente le «happy hours», specchio della società tossicofila che viviamo e legittimiamo, che è la prima causa di morte tra i giovani - e non solo - che bevono e guidano sollecitati da un marketing pervasivo, incontrastato e supportato da centinaia di milioni di euro in pubblicità contro un milione speso in prevenzione. È un'immagine, un valore che può avvalersi dell’inefficacia dei (pochi) provvedimenti legislativi per contrastare il problema (come emerge dalla lettura del rapporto in questione).
Più di otto italiani su dieci ritengono che lo Stato negli anni abbia fatto poco per contrastare l’alcolismo (84,1 contro il 15,9% per cento). Secondo un quinto degli intervistati, occorrerebbe una maggiore strategia di sensibilizzazione (19,7 per cento), per un altro quinto più informazione a livello scolastico (18,3 per cento), per il 15,3 per cento sarebbe necessario puntare maggiormente sulla prevenzione. Per un altro 15,4 per cento lo Stato dovrebbe risolvere le cause sociali che portano all’abuso di alcol, secondo il 6,2 per cento ritiene si debbano creare più centri di assistenza e recupero, per il 14,6 per cento serve una regolamentazione per la vendita più rigorosamente controllata degli alcolici come il divieto di vendita di alcolici da asporto dopo le 22 e la somministrazione dopo le 2 di notte (ritenuti inutili se applicati stagionalmente) e, come si sta lottando per l’approvazione a Roma, l’inclusione permanente nel regolamento della polizia municipale. Otto cittadini su dieci sarebbero favorevoli a proibire la pubblicità di alcolici vicino le scuole (79,8 per cento); sette su dieci proibirebbero la pubblicità di alcolici in tv durante la fascia protetta (71,2 per cento); il 67,5 per cento approverebbe le tanto discusse «etichette shock» sulle bottiglie, oltre la metà imporrebbe un prezzo minimo per gli alcolici (52,4 per cento), un’altra metà proibirebbe la vendita a prezzi ridotti (51,4 per cento). Ci sarà chi incorporerà tali evidenze in normative di tutela? Si attiveranno corsie preferenziali per il contrasto al rischio, al danno, alla dipendenza da alcol? Potrà supportare in tutto ciò l’evidenza che nove medici su dieci sostengono che è l’alcol la sostanza psicotropa più diffusa e quella che miete il maggiore numero di vittime in termini di dipendenza (rispetto a fumo, droghe sintetiche e cocaina) in evidente e dimostrata scarsissima correlazione tra emarginazione sociale e alcolismo? Sfatata la leggenda metropolitana che le motivazioni al bere, rilevate attraverso l’esperienza riportata dei medici, non sono legate a problemi, disagi o stati d’animo negativi, ma piuttosto alla ricerca di divertimento e di sballo, chi interverrà prendendo atto che l’approccio di popolazione richiesto è di investire risorse e azioni in prevenzione di comunità?
Il sistema sanitario presenta grosse criticità riuscendo a intervenire soltanto su settantamila alcoldipendenti in carico ai servizi dei circa 700mila per i quali sarebbe da offrire un intervento che oggi non ricevono, non essendo intercettati dalle inadeguate prassi e insufficienti strutture del servizio sanitario nazionale. Il sistema sociale non sembra garantire ciò di cui ci sarebbe necessità e l’indifferenza attraverso cui, giorno dopo giorno, 57mila italiani fanno ricorso a cure e prestazioni ospedaliere, quasi sei milioni eccedono quotidianamente i livelli che espongono a maggior rischio e circa quattro milioni si ubriacano, è il tratto consolidato e certificato dalle statistiche prodotte in Italia e l’indicatore evidente che, per ottenere tutela, ci vuole ben più di una conferenza stampa o di un servizio televisivo e che il cambiamento è ben lungi dal potere essere conseguito in una attesa cornice di legalità, di attenzione e di solidarietà che una nazione come l’Italia fatica a realizzare attraverso la costruzione di una coscienza comune che oggi si limita alla consapevolezza, verificata dai sondaggi d’opinione, che lì dove l’intervento manca altri interessi sono prevalenti nel governare le nostre vite. Avvisare i minori e allertarli che la vita non è da bere, di farsi furbi e non rischiare gioverà. Per il cambiamento … attendere prego.