Riusciremo un giorno a rigenerare il cervello?
Neuroni immaturi sono presenti in diverse aree del cervello. Si lavora per capire come «risvegliarli»
La domanda è di quelle da un milione di dollari. «È possibile rigenerare il cervello?». Questo traguardo è sempre apparso così lontano nell’immaginario collettivo da arrivare a far parte di uno dei più diffusi cliché della fantascienza: cominciando da Frankenstein per arrivare ai fumetti di Marvel. Eppure dovrebbe stupire che, a differenza di altri «sogni impossibili» della scienza (la presenza fisica in più posti contemporaneamente, il traferimento della materia da un posto ad un altro, la comunicazione mediante telepatia e via dicendo), questo fenomeno in realtà accada davvero. Noi lo sappiamo da anni. Ora però, grazie al lavoro di Luca Bonfanti e del suo team dell’Istituto di Neuroscienze Cavalieri Ottolenghi (Nico) di Torino, siamo venuti a conoscenza anche di qualcosa in più: il cervello non è solo in grado di sostituire - parzialmente - i neuroni andati persi durante il corso della vita, ma è anche in grado di «svegliare» alcuni di essi che sono stati dormienti da quando siamo nati. Anzi, anche da prima.
Andiamo con ordine e, come sempre, iniziamo dalle definizioni. Alzi la mano chi sa veramente cosa sia un neurone. Il neurone è la tipologia di cellula più importante del sistema nervoso. Immaginate ogni neurone come un albero, con le sue radici, chiamate dendriti, il suo tronco, che in questo caso sarà il soma, e i suoi rami, ossia gli assoni. Un neurone funziona più o meno come un albero: prende la linfa dalle radici e, attraverso il tronco, la porta alle foglie. La linfa che assorbono i dendriti sono in realtà piccole molecole, chiamate neurostrasmettitori, ossia dei messaggeri che portano l’informazione da un neurone all’altro. Una volta letta l’informazione, i dendriti la trasmettono sottoforma di segnale elettrico lungo tutto il corpo della cellula (il tronco) fino agli assoni (le foglie) che rispondono rilasciando a loro volta altri neurotrasmettitori. Ogni neurone, preso singolarmente, è di per se abbastanza inutile. È come avere un mattoncino dei Lego: puoi farci ben poco se non ne hai altri. Ma quando un neurone è vicino a un altro neurone, beh, in quel caso c’è la magia.
Immaginate una foresta di alberi in cui, però, ogni albero comunica con quello vicino collegando le proprie radici con le foglie di quello successivo. Si crea in questo modo una vera e propria rete di alberi comunicanti tra loro. Una rete di neuroni, chiamata rete neurale, funziona esattamente così: i neuroni comunicano tra loro collegando dendriti e assoni e trasmettendo le informazioni sotto forma di segnali elettrici e neurotrasmettitori. Il cervello altro non è che una enorme rete neurale, composta da 86 miliardi di alberi: immaginate quindi 86 miliardi di computer collegati tra loro e che comunicano in maniera bidirezionale, formando miliardi di miliardi di collegamenti. Ogni neurone può ricevere messaggi da centinaia di altri neuroni per mezzo dei propri dendriti e trasmetterli ad altrettanti neuroni attraverso i propri assoni: i continui cambi all’interno di questa rete vengono detti plasticità neurale e possono essere sia cambiamenti morfologici e funzionali (come la plasticità sinaptica) sia cambiamenti anatomici (come neurogenesi adulta e neuroni immaturi, dei quali parleremo dopo).
Esaminiamo nello specifico i vari processi e la modalità di evoluzione della plasticità neuronale, a sua volta originata da plasticità sinaptica e neurogenesi adulta. Ogni volta che impariamo qualcosa, che formiamo un ricordo, che immagazziniamo una nuova esperienza, i neuroni di determinate aree del cervello, come l’ippocampo, formano nuovi collegamenti o modificano collegamenti pre-esistenti, creando quindi una nuova microrete neurale a livello locale: ogni volta che richiamiamo alla mente quel ricordo, si «riaccende» quella mappa neurale. Questa forma di adattamento del cervello ai nuovi stimoli è alla base di ogni forma di apprendimento in moltissime specie e si chiama plasticità sinaptica: è la forma di plasticità neurale più comune di tutte ed è quella che determina la maggior parte dei cambiamenti nella rete neurale del nostro cervello.
La plasticità sinaptica, però, non risponde alla domanda iniziale: si può rigenerare il cervello? Non con questo meccanismo, evidentemente perchè quello che fa la plasticità sinaptica è mettere in collegamento due neuroni che prima erano scollegati e generare una nuova rete, ma il numero di protagonisti in gioco non è cambiato. Per decenni, la scienza ha rifiutato l’ipotesi della neurogenesi adulta, ossia la formazione di nuovi neuroni partendo da cellule staminali neurali (il tipo di cellule staminali da cui derivano i neuroni). Nelle fasi embrionali e fetali della vita, nel cervello in via di sviluppo di bambini e adolescenti, la neurogenesi è un processo normalissimo ed estremamente frequente, dal momento è attraverso la continua produzione di nuovi neuroni che si crea appunto la foresta di 86 miliardi di neuroni che costituisce il cervello adulto. Fino a una certa data si è pensato che negli individui, raggiunta la fase adulta, questo processo si interrompesse in via definitiva. Negli anni ’90, invece, si è scoperto che la neurogenesi esiste anche nell’adulto, anche se con un ritmo decisamente inferiore visto che si parla della creazione di 700 nuove cellule al giorno in media e inoltre l’entità di questo processo varia a seconda della specie. Sappiamo che i modelli di topi e ratti mostrano un rateo di neurogenesi molto più alto rispetto ai mammiferi superiori. In generale, nell’uomo la neurogenesi adulta avviene nella zona subventricolare e nel giro dentato dell’ippocampo. Le cellule staminali neurali maturano man mano che si spostano radialmente verso le zone esterne e possono arrivare a raggiungere il neocortex, la zona di corteccia cerebrale evolutivamente più recente.
Una volta arrivati a destinazione, i nuovi neuroni vengono inseriti, attraverso i loro assoni e dendriti, nella rete neurale pre-esistente. Questo meccanismo contribuisce in maniera fondamentale alla plasticità neurale visto che aumenta il numero di “alberi” collegabili nelle varie reti neurali locali attraverso la plasticità sinaptica. L’ippocampo è una specie di centralina che si occupa di smistare le informazioni in arrivo ed è la regione protagonista quando si parla di memoria e apprendimento. La neurogenesi adulta, che qui ha origine, è quindi un potente elemento modulatore nei processi di apprendimento o, come vedremo tra qualche riga, nelle sue aberrazioni.
La neurogenesi adulta è un fenomeno dipendente sia da fattori genetici sia dalle esperienze dell’individuo e dai fattori ambientali e biologici: come per esempio l’invecchiamento. Si tratta quindi di un processo altamente influenzato da fattori intrinseci ed estrinseci come fattori di crescita neuronali, antidepressivi, oppioidi, crisi epiletiche, attività fisica, glucocorticoidi, ormoni sessuali, apprendimento, stress e persino la dieta. La scoperta di neurogenesi adulta in zone del cervello fortemente colpite dal morbo di Parkinson, come mesencefalo e striatum, fa pensare a promettenti miglioramenti nelle terapie per questa o altre malattie neurodegenerative. Pur con qualche risultato controverso, l’ipotesi che l’uso di antidepressivi favorisca la neurogenesi adulta è tuttora accettata, però non è vero l’opposto: la mancanza o riduzione di neurogenesi adulta non porta necessariamente allo sviluppo di stati depressivi. Aberrazioni della neurogenesi durante l’infanzia e conseguente eccesso di produzione di neuroni sono state proposte come possibili cause alla base del disordine dello spettro autistico. Nel 2011 fu dimostrato come alcuni pazienti autistici avessero il 67 per cento di neuroni in più nella corteccia pre-frontale. Nei pazienti affetti da Alzheimer è comune notare una riduzione nel tasso di neurogenesi, cosa che contribuisce ad aggravare i sintomi, dovuti, tra l’altro, alla progressiva diminuzione della massa corticale.
Nonostante gli esperimenti su topi abbiano finora dato risultati contrastanti in questo senso, il miglioramento della neurogenesi in pazienti affetti da Alzheimer è sicuramente uno degli obiettivi principali del futuro. Pur essendo la neurogenesi adulta un meccanismo rimasto praticamente inalterato nel corso dell’evoluzione della specie e, nella sua essenza, simile tra le varie specie, è importante ribadire come la sua presenza ed entità sia molto variabile a seconda della specie in considerazione. La pecora è un animale molto utilizzato nella ricerca sulle neuroscienze perché presenta diversi vantaggi rispetto ai classici modelli in roditori. Ha una lunga aspettativa di vita, il che permette di studiare più dettagliatamente le varie fasi dello sviluppo e della maturazione di un sistema complesso come quello nervoso; le pecore sono animali in grado di riconoscere i propri conspecifici e creare legami con essi, permettendo di studiare il ruolo della plasticità neurale nel riconoscimento dei propri simili. Gli ovini in genere hanno, insomma, un cervello la cui anatomia è più simile a quella umana e hanno dimostrato avere processi di neurogenesi e plasticità sinaptica simili ai nostri.
È proprio la pecora l’animale modello utilizzato dal gruppo di Luca Bonfanti per dimostrare la teoria in base alla quale plasticità sinaptica e neurogenesi adulta non sono gli unici due meccanismi attraverso cui la rete neurale del cervello può modificarsi, dal momento che esistono neuroni cosiddetti «immaturi», «dormienti», situati in specifiche zone del cervello, che possono essere risvegliati ed entrare a far parte della rete neurale. Già negli anni 90, il gruppo di studio di Bonfanti scoprì questo tipo di neuroni nella paleocorteccia dei cervelli di roditori. Si tratta dell’area più ancestrale del cervello, rimasta praticamente inalterata lungo il corso dell’evoluzione della specie, deputata a processare segnali sensoriali elementari, come per esempio gli odori. I neuroni immaturi si formano assieme a tutti gli altri già in fase fetale-embrionale ma rimangono «spenti» fino a quando appositi segnali molecolari non avviano un processo di accensione. Recentemente, il team di Bonfanti ha pubblicato alcuni suoi risultati sul Journal of Neuroscience, una delle riviste di punta nel campo delle neuroscienze, indicando due nuove scoperte molto importanti nel contesto della plasticità neurale. La prima è che questi neuroni immaturi sono presenti anche in altre specie evolutivamente più avanzate rispetto ai roditori, come appunto la pecora. La seconda conclusione a cui è arrivato questo gruppo di ricerca, probabilmente anche più clamorosa della precedente, è quella che, in un mammifero superiore come la pecora, i neuroni immaturi sono presenti anche in altre zone del cervello oltre la paleocorteccia. Per esempio, sono stati trovati neuroni immaturi sia nella neocorteccia, ossia la corteccia cerebrale “in dotazione” alle specie più evolute, sia nell’amigdala, comunemente noto come «il centro della paura» (dal momento che è quella che gestisce questo tipo di emozione), sia, infine, nel claustro, che si ipotizza possa essere la sede della coscienza.
Tenendo conto del fatto che, rispetto ai piccoli mammiferi, i mammiferi più evoluti hanno un maggior numero di questi neuroni immaturi, situati in zone chiave nella gestione delle emozioni, è possibile ipotizzare che questo sia uno dei principali meccanismi che il nostro cervello usa per modulare e modificare processi chiave come paura, coscienza, linguaggio, memoria e apprendimento. La possibilità di «risvegliare» neuroni immaturi sembra quindi costituire una prima, importante risposta alla domanda se sia o meno possibile rigenerare il cervello. Si tratta adesso di individuare i processi attraverso i quali generare questo risveglio.
Ciao Enrico. Grazie a te per aver dedicato tempo a leggere il post. In effetti, è edificante vedere come la ricerca nelle neuroscienze fa davvero passi avanti da gigante (persino in Italia...) La speranza è innanzitutto riuscire a capire meglio come funziona questo organo ad oggi ancora così misterioso: da lì in poi, tutto sarà più semplice. Un saluto! Francesco
Complimenti, estremamente interessante. Il cervello ed il suo funzionamento, per lo più ancora da scoprire, mi emozionano tantissimo da anni oramai, forse perché l'alzheimer mi fa paura. Mi ha fatto piacere sapere che la ricerca sta facendo passi avanti importanti in questo campo, dandoci speranze per un futuro in cui anche questo organo potrà essere oggetto di cure. Grazie ancora, per l'impegno e proficuo lavoro. Enrico