Quanto soffrono gli animali in laboratorio?
Conseguenze tollerabili per nove procedure su dieci. La ricerca per ridurre la sofferenza degli animali
Con questo post, chiudiamo una serie di pubblicazioni riguardanti i dati effettivi dell’uso di animali da sperimentazione in Italia. Ora che sappiamo ogni anno quanti animali si usano e con quali finalità, resta un’altra domanda che sta a cuore a molta più gente di quanto si creda: «Quanto soffrono gli animali durante la sperimentazione?». Come le precedenti, anche questa domanda è fonte inesauribile di fake-news e notizie fuorvianti. Come sempre, l’unica difesa per ristabilire la verità dei fatti sono i dati, i quali riportano nero su bianco le risposte.
Iniziamo, come sempre, dando un po’ di definizioni. Stando all’allegato VIII della Direttiva Europea 2010/63/UE, sappiamo che «la gravità della procedura è determinata in base al livello di dolore, sofferenza, angoscia o danno prolungato cui sarà presumibilmente sottoposto il singolo animale nel corso della procedura stessa». La sezione I della Direttiva stabilisce e definisce quattro queste categorie in cui possono essere suddivisi i procedimenti che usano animali da sperimentazione:
- Non risveglio: Le procedure condotte interamente in anestesia generale da cui l’animale non può riprendere coscienza sono classificate come «non risveglio».
- Lieve: Le procedure sugli animali che causano probabilmente dolore, sofferenza o angoscia lievi e di breve durata, nonché le procedure che non provocano un significativo deterioramento del benessere o delle condizioni generali degli animali sono classificate come «lievi».
- Moderata: Le procedure sugli animali che causano probabilmente dolore, sofferenza o angoscia moderati e di breve durata, ovvero dolore, sofferenza o angoscia lievi e di lunga durata, nonché le procedure che provocano probabilmente un deterioramento moderato del benessere o delle condizioni generali degli animali sono classificate come «moderate».
- Grave: Le procedure sugli animali che causano probabilmente dolore, sofferenza o angoscia intensi, ovvero dolore, sofferenza o angoscia moderati e di lunga durata, nonché le procedure che provocano probabilmente un deterioramento grave del benessere o delle condizioni generali degli animali sono classificate come «gravi».
Guardiamo ora i grafici nella figura numero 7 della fotogallery. Negli anni 2014-2015, circa il 90 per cento delle procedure con animali da sperimentazione erano di gravità lieve o moderata. In particolare, nel 2014 il 59,78 per cento delle procedure era di entità lieve e il 32,36 per cento prevedevano stress moderato. Nel 2015 le proporzioni sono simili, con un 57.35 per cento di procedure lievi e un 32,48 per cento di procedure moderate. Meno del sei per cento delle procedure prevedevano che l’animale non si risvegliasse dall’anestesia al termine della pratica e meno del cinque per cento delle procedure nel 2015 sono state giudicate di severità grave dal comitato etico che le ha approvate.
Riguardo alla distinzione per specie, sono i suini quelli che subiscono il maggior numero di pratiche che non prevedono risveglio dall’anestesia, mentre sono rettili, anfibi e pesci quelli per i quali sono state approvate in maggior proporzione procedute a elevato livello di stress. Per quanto riguarda animali evolutivamente o eticamente più vicini all’uomo, ossia cani e scimmie, nessuna procedura prevedeva la morte dell’animale o un grave stress psico-fisico. I dati riportati provengono dai resoconti annuali pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, il cui ultimo report disponibile alla data di stesura di questo post si riferisce all’anno 2015. Questi dati ci dicono che la ricerca italiana è ogni anno sempre più improntata verso la riduzione della sofferenza degli animali, in linea con il principio del «raffinamento» delle procedure. Si scelgono sempre procedure a bassa o nulla sofferenza laddove possibile, relegando le più gravi a casi eccezionali e in rarissimi casi con mammiferi superiori.
Come conclusione di questi tre post, possiamo dire che gli scienziati italiani non possono assolutamente essere individuati come insensibili macellai, secondo quanto affermato da colpevoli e disarmanti campagne di disinformazione. Sono per lo più persone che riescono a fare ricerca scientifica di elevato valore, minimizzando l’utilizzo di animali, limitando le pratiche che possono creare per sé e per l’opinione pubblica dilemmi etici e, al tempo stesso, fronteggiando problemi pratici che poco hanno a che fare con la scienza, derivanti dal continuo e progressivo taglio delle risorse finanziarie destinate alla ricerca.
Chiudo con un interrogativo, già posto nel primo di questi tre post: perché usiamo meno animali ogni anno per la nostra ricerca? I ricercatori italiani sono spinti unicamente da una pressione etica a rinunciare al sei per cento di animali ogni anno? Esistono altre ragioni dietro questi numeri, come per esempio una burocrazia più ingarbugliata, una pressione politica più forte? Una risposta potrebbe essere data guardando realtà scientifiche a noi simili, come la Spagna o la Francia. Per avere poi un quadro ancora più completo, si potrebbero comparare i nostri numeri con quelli di Paesi storicamente leader della ricerca scientifica internazionale (Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti) o con Paesi in via di sviluppo (Corea del Sud, Cina, India) in cui la ricerca e lo sviluppo stanno affermandosi a un ritmo tale da sparigliare continuamente le carte in tavola. Proveremo a vederlo nel prossimo post.
LE FONTI
- Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana 17-6-2015 SG n. 138
- Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana 8-6-2016 SG n. 132
- Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana 24-8-2016 SG n. 197
- Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana 24-4-17 SG n. 95