Ecco come nasce un farmaco
Quattro i passaggi necessari, dopo le valutazioni in vitro e i test sugli animali. Prima di vedere una nuova molecola sul mercato, servono almeno quindici anni di valutazioni in laboratorio
Non molti post fa, abbiamo parlato di organismi modello. In quell'occasione, l'idea era cercare di spiegare per quali ragioni l'essere umano è un pessimo "materiale di studio" per uno scienziato che si occupa di ricerca farmacologica di base. In un post successivo, poi, abbiamo parlato di ricerca veterinaria, e spero di avervi convinto che, se stiamo lavorando a un farmaco destinato ai maiali, è sui maiali che dirigeremo le nostre ricerche e i nostri esperimenti. La logica conclusione è che i farmaci destinati all'uomo vadano testati sull'uomo, il peggior organismo modello del pianeta. E, che piaccia o no, alla fine è lì che si va a finire: la sperimentazione umana - o, per dirla correttamente, la ricerca clinica - è l'ultimo stadio di una ricerca farmacologica. Ora, non mi stancherò mai di ripetere che esistono moltissime aree di ricerca; tra di esse c'è anche (ma non solo) la ricerca clinica, al cui interno troviamo la ricerca clinica di base, che si propone di comprendere meglio cause e "funzionamento" di una malattia, e la ricerca farmacologica, che si propone di trovare una soluzione al problema. Per qualche curiosa ragione, l'opinione comune è che un laboratorio di ricerca serva unicamente a trovare nuovi farmaci. No! Quello è l'ultimo stadio di un processo molto più vasto e spesso invisibile. E aggiungo: la sperimentazione umana è, a sua volta, l'ultimo stadio di questa ricerca.
Chiunque, suo malgrado, si sia trovato ad aver a che fare con qualche fondamentalista anti-sperimentazione, sarà incappato nella mitica e abusata frase: "Sperimentate sugli umani". Di conseguenza spero che dopo la lettura di questo (lungo) post, possiate dirgli "Guarda che lo facciamo già". Ebbene sì, oggi parliamo di studi clinici, e ho l'arduo compito di condensare in questo poco spazio un argomento enorme, riguardo al quale si è scritto, parlato e discusso tantissimo. Per approfondire l'argomento, a parte la generica e sempre gradita infarinata su Wikipedia, si dovrebbero avere delle basi solide di statistica e farmacologia ma esistono comunque ottimi testi, purtroppo la maggior parte dei quali in inglese. Può anche risultare utile una lettura sul sito dell’Agenzia Italiana del Farmaco, l'ente che regola e gestisce il corretto procedimento di un trial clinico; a questo indirizzo, inoltre, troverete un database (in inglese) di tutti gli studi clinici attualmente in corso.
Iniziamo con qualche definizione. Che cosa è uno studio (o trial) clinico? Anche in questo caso, trasportare il concetto a una definizione più "masticabile", lo ha non solo generalizzato e semplificato ma anche reso incorretto. Uno studio clinico non riguarda solo farmaci potenziali, ma anche procedure terapeutiche (operazioni chirurgiche, nuovi approcci in psicoterapia), prodotti sanitari, terapie di nuova generazione (terapie geniche e cellulari) e via dicendo. Per semplificare, uno studio clinico è l'insieme di tutte le valutazioni sperimentali riguardo una sostanza, un farmaco, una terapia o un prodotto effettuate attraverso la loro somministrazione ad esseri umani. Le sue finalità sono scoprire la farmacocinetica di una sostanza - tempi e modi di assorbimento, distribuzione, metabolismo e secrezione da parte del corpo umano -, la sua farmacodinamica - ossia la sua efficacia terapeutica - e quali e quanti effetti collaterali la sostanza provoca. Per praticità, d'ora in poi considereremo i trial clinici dedicati allo studio di nuovi farmaci, poiché sono i più diffusi e i più semplici da comprendere.
Per fare breve una storia lunghissima, limitiamoci a sapere che, affinché l'Aifa ne approvi lo studio clinico, qualsiasi molecola deve aver già superato ampiamente test in vitro (su cellule e tessuti) e anche i test in vivo, ossia sugli animali. Nessuna molecola approda a uno studio di sperimentazione umana senza essere passata per questi due passaggi. Ok, abbiamo superato i test su cellule e su animali (test pre-clinici). Che facciamo ora? Beh, introduciamo un po' di soggetti. L'Aifa già la conosciamo, ora è il momento di presentare lo sponsor o promotore, ossia la casa farmaceutica, l'azienda biotecnologica, il medico o il centro pubblico che ha scoperto la molecola e, attraverso i test pre-clinici, ha convinto l'Agenzia a delle sue potenzialità. Come suggerisce il nome, lo sponsor è anche quello che mette i soldi per finanziare questi studi: esistono numerosi casi di aziende, spin-off e case farmaceutiche andate in bancarotta per aver fallito studi clinici dopo averci investito capitali enormi. Tornando all'Aifa, una volta autorizzata la sperimentazione umana si procede a uno studio clinico di fase I, durante la quale si eseguono i primi studi sperimentali su un centinaio di volontari sani. Lo scopo di questo trial è studiare la molecola candidata seguendone la farmacocinetica (la velocità con cui un farmaco agisce) e la farmacodinamica (il modo in cui un farmaco agisce), la tolleranza-tossicità da parte del corpo umano e la correlazione tra dose e azione biologica, in modo da stabilire qual è la dose che garantisca il giusto effetto biologico senza essere tossica. Una volta superata la fase I, il promotore presenta i risultati all'Aifa e, se riesce a convincerla che la molecola non è tossica alle dosi biologicamente attive (ossia, le dosi in cui ha un effetto biologico rilevante), questa autorizzerà uno studio clinico di fase II. Per arrivare a questo punto, dobbiamo introdurre due nuovi soggetti. Il primo sono i pazienti, i quali entrano in gioco solo ora (e non prima). I pazienti vengono selezionati sulla base di criteri ben precisi che Agenzia e promotore concordano insieme: età, sesso, stadio della patologia, valori analitici e abitudini di vita sono solo alcuni dei molti fattori che possono comportare l'inclusione o l'esclusione di un paziente da un trial clinico. Altro soggetto che entra in gioco ora sono i centri di ricerca in cui verranno effettuati gli studi: si tratta di strutture (ospedali, cliniche) selezionate da un promotore, sulla base sia della loro capacità di reclutare i pazienti con le caratteristiche adatte ad entrare nello studio sia della competenza del personale medico riguardo la malattia in esame. Una volta accettato lo studio, il centro sottopone a un giudizio del proprio comitato etico il protocollo e il consenso informato proposti dallo sponsor. Ok, stiamo mettendo troppa carne al fuoco: cosa è il protocollo e cosa è il consenso informato? Per ragioni di spazio, sono costretto a dare definizioni stringate di questi due elementi che, invece, sono fondamentali in ogni studio clinico.
Un protocollo descrive tempi e dosi di somministrazione della molecola, numero e frequenza di visite di controllo, tipo di analisi da eseguire a ogni visita e ogni altro dettaglio tecnico dello studio: qualsiasi cosa andrà fatta al paziente, deve essere specificata nel protocollo nei minimi dettagli. Un consenso informato è un documento con valore legale attraverso cui s'informa il paziente tutti i passaggi che saranno seguiti durante lo studio, rischi, benefici (potenziali), la durata dello studio, il suo scopo, eccetera; in altre parole, è il documento con la cui firma il paziente autorizza il centro di ricerca ad effettuare lo studio sulla sua persona. Entrambi questi documenti dovranno passare al vaglio dal comitato etico dell'Agenzia del Farmaco, da quello di ogni singolo centro di ricerca incluso nello studio e, in molti casi, da quello del promotore stesso. In maniera molto simile ai comitati etici visti per la sperimentazione animale, anche in questo caso in comitati etici saranno generalmente formati da esperti del settore: medici ed esperti in farmacia, farmacologia e farmacocinetica, oltre a specialisti in questioni legali ed etiche. Bene, siamo in fase II: a cosa serve questa fase? Lo scopo dello studio clinico di fase II è, oltre a proseguire lo studio della sicurezza del farmaco, quello di fornire le prime indicazioni terapeutiche del trattamento che si sta studiando: viene realizzato su un campione di pazienti abbastanza ampio (circa 200) e nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di studi controllati. Uno studio si definisce "controllato" quando i pazienti vengono suddivisi, in genere in maniera del tutto casuale, in almeno due gruppi: il gruppo che riceverà il trattamento e il gruppo che riceverà una sostanza di controllo. Un controllo può essere negativo, quando si somministra un placebo (una sostanza priva di effetti terapeutici) o positivo, quando si utilizza una sostanza già nota per produrre l'effetto desiderato.
Se stiamo studiando un potenziale antinfiammatorio non-steroideo, un buon controllo positivo potrebbe ad esempio essere l'aspirina. In questa fase, il protocollo definisce se lo studio deve essere aperto, in singolo cieco o a doppio cieco. Anche qui, purtroppo, dovrò sintetizzare al massimo dei concetti che sono argomenti di interi esami nelle Facoltà di Farmacia. Uno studio aperto è uno studio in cui sia il paziente che il ricercatore sono a conoscenza del gruppo in cui il paziente è stato assegnato (in altre parole, entrambi sanno se il paziente sta assumendo il placebo/controllo o il trattamento). Si tratta di una modalità che può risultare molto vantaggiosa dal punto di vista psicologico, semplice da realizzare e molto diffusa negli studi non controllati, ossia negli studi in cui non è possibile introdurre dei controlli (ad esempio, pratiche chirurgiche, studi di disintossicazione da droga). Negli studi a singolo cieco, il paziente non conosce a quale gruppo è stato assegnato e questo è spesso sufficiente ad abbattere l'effetto placebo, ossia l'autosuggestione del paziente che una sostanza inerte stia avendo un effetto benefico; questo effetto può essere un rischio degli studi controllati condotti in aperto o, ad esempio, negli studi su farmaci antidepressivi, ansiolitici, eccetera. Spesso, però, per evitare anche le eventuali e spesso inevitabili influenze da parte dello staff medico, si utilizzano studi a doppio cieco, in cui né il paziente né il ricercatore sono a conoscenza dell'assegnazione dei gruppi. Questi studi, sebbene molto più complicati da gestire, sono i più diffusi per via del rischio praticamente nullo di alterazione dei dati dovuta a effetto placebo, influenze dello staff medico al momento di prendere decisioni riguardo la terapia, eccetera. Superata la fase II, il promotore presenta i risultati all'Agenzia del Farmaco per convincerla della bontà del suo prodotto e avere l'approvazione alla fase III. Lo studio clinico di fase III può essere molto semplicisticamente considerato un "prolungamento" della fase II: si continua a porre la massima attenzione alla sicurezza del farmaco, si cerca di stabilire il profilo degli effetti collaterali previsti (in quali soggetti sono più frequenti, in che momento compaiono, ...) e ci si propone di scoprire eventualmente altri effetti collaterali inaspettati che possono comparire in una minoranza del campione preso in analisi. In questa fase, il promotore può arrivare a "reclutare" anche migliaia di pazienti prima di considerare conclusa la fase.
Se i risultati della fase III sono sufficientemente convincenti, l'Agenzia può autorizzare il brevetto e la commercializzazione del farmaco. Sono passati, dalla scoperta della molecola alla sua commercializzazione, una media di circa 10-15 anni di studi, su cellule, animali, volontari sani e pazienti. Finalmente è finita, direte voi. Assolutamente no!! Dal momento in cui il farmaco entra in commercio, si entra nella cosiddetta fase clinica IV o, per gli amici, "farmacovigilanza", ossia un periodo di tempo (di decenni, a volte) in cui è compito del promotore continuare a raccogliere dati riguardo effetti secondari a lungo termine, effetti del farmaco sulla eventuale morbilità della malattia, sulla mortalità che può eventualmente causare, eccetera. È quando un farmaco si trova in questa fase che potrete leggere la notizia "Farmaco ritirato dal commercio": si tratta di casi estremamente rari, dato che il più delle volte si ritirano semplicemente dei lotti che, nonostante tutti i rigorosissimi controlli di qualità, si sono rivelati difettosi. Nonostante ciò sono comunque casi gravi e da tenere in conto. Quello che accade è semplicemente che una molecola, nonostante 15 anni (di media) di studi e numerosi anni di farmacovigilanza, finisce per essere considerata non adatta all'uso farmaceutico e ritirata dal mercato. Quindi, quando qualcuno della LAV et similia cerca di convincervi che un farmaco viene ritirato perché la sperimentazione animale ha fallito, fategli notare che, assieme ad essa, hanno fallito anche i circa cinque anni di studi pre-clinici (in cellule e animali), i due anni di fase I, gli 8-10 anni di fasi II e III e i 10-15 anni di farmacovigilanza. Fin troppo comodo dare la colpa alla sola sperimentazione animale, non trovate?
Voglio concludere questo (lunghissimo) post con un ringraziamento ad Alba Murciano, farmacista nel settore degli studi clinici, per avermi fornito materiale specifico riguardo i trial clinici, aver chiarito i miei dubbi al riguardo e aver sopportato le mie semplificazioni.