Sperimentazione animale: quale ruolo in tempo di pandemia?
Diversi i successi ottenuti nella lotta alle infezioni virali con la sperimentazione animale. Su tutti: HIV e Ebola
Scrivo questo post in una situazione che, onestamente, credevo esistesse solo nelle serie tv di genere apocalittico: in quarantena. E ci rimbomba continuamente questa parola intorno, assieme a «contagio», «infezione», «isolamento», «paranoia». Tutte parole ormai entrate nel nostro vocabolario quotidiano, al punto che quasi perdono il senso della loro gravità. Ma la situazione non smette di essere grave. E allora cosa possiamo fare? Certo, rimanere in casa. Quella è la priorità. Lavarsi le mani spesso, usare guanti e via dicendo. Per tutto questo, c’è la tv che ci informa. Però possiamo anche fare altro. Possiamo fermarci e pensare.
Recentemente ho sentito - rigorosamente in videochiamata - un mio carissimo amico d’infanzia che mi ha offerto uno spunto di riflessione molto interessante: «Questa calma imposta ci costringe ad abbassare il ritmo della nostra giornata, ci permette di respirare, prendere coscienza di cosa abbiamo intorno» - gira sui gruppi di WhatsApp un audio sarcastico di un tizio che dice «è da 5 giorni che sono chiuso in casa con la mia famiglia...sembrano brave persone». Il mondo ci ha costretto a una pausa, forse perché ne aveva bisogno: l’acqua della laguna di Venezia è pulita e si vedono addirittura i pesci. E quindi, riflettendo, tra un telelavoro e l’altro, mi sono detto: «Questa è una pandemia bella grossa, finiremo sui libri di storia. Eppure epidemie ne abbiamo avute, in passato, e quelle di origine virali sono particolarmente spaventose: le altre volte come abbiamo fatto?». E indovinate un po’, scavando nella letteratura scientifica, ho scoperto che c’è sempre stato qualche esperimento con gli animali che ci ha aiutato. Non mi credete? Vediamo un po’.
EBOLA
Tutti ricordiamo la terribile epidemia di Ebola nell’Africa subsahariana occidentale esplosa nel mese di Marzo 2014. In realtà, da quel momento in poi, l’epidemia non si è mai davvero fermata, nonostante dal 2016 non sia più considerata un’emergenza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, a fine 2014, confermò più di 21.000 casi, con una mortalità variabile dal 25 al 90 per cento (a seconda del Paese colpito e del ceppo epidemico). Il genere di virus Ebola appartiene alla famiglia Filoviridae e comprende cinque specie di virus, di cui quattro causano la terribile febbre emorragica conosciuta come malattia da virus Ebola.
Il virus colpisce anche i primati ed è stata questa la ragione fondamentale per cui essi sono stati il modello ideale per ricercare sia una cura che un vaccino efficace contro di esso. Quando esplose l’epidemia del 2014 non esisteva un trattamento valido per la febbre emorragica causata dal virus Ebola, i metodi diagnostici validati fino a quel momento erano imprecisi e la via verso un vaccino sembrava impraticabile. Nel 2019 è stato approvato l’uso sperimentale in Congo di un vaccino chiamato rVSV-ZEBOV. Questo vaccino, sviluppato in Canada, si è dimostrato estremamente efficace in macachi precedentemente infettati col ceppo ZEBOV, quello con più alta mortaità. I modelli animali hanno anche permesso di mettere a punto dei farmaci sperimentali per il trattamento della febbre emorragica basati su anticorpi monoclonali. Esistono anche modelli di porcellini d’india e topi con i quali si sta lavorando alla messa a punto di farmaci basati su strategie diverse, come small-interference RNA (una tecnica che impedirebbe la replicazione del virus) o nucleoside analogs (la cui funzione è danneggiare i virus presenti nell’ospite per impedirne la replicazione). Una velocità di sviluppo simile si è vista poche volte nella scienza e personalmente trovo il caso dell’Ebola secondo solo a uno che troverete un po’ più in basso in questo post (niente spoiler).
HERPES SIMPLEX VIRUS
Quella degli Herpesviridae è sicuramente la famiglia di virus a noi più familiare. Herpes Simplex (HSV), varicella (zoster), Epstein-Barr e Citomegalovirus (vedi sotto) sono alcuni dei membri di questa famiglia e sono diffusi in oltre il 90% della popolazione umana. Questo significa che la stragrande maggioranza di noi ne è venuto a contatto in qualche momento della sua vita e, se credete che herpes sia solo quel fastidioso pizzicore che ogni tanto viene al labbro, sappiate che quello è solo un ceppo (HSV-1) appartenente al genere Simplex. Allo stesso genere appartiene anche il ceppo HSV-2, responsabile dell’herpes genitale e decisamente più pericoloso perché può degenerare in una encefalite virale.
Le infezioni da HSV sono state storicamente studiate in roditori. Topi, conigli e porcellini d’india sono stati ampliamente usati per scoprire meccanismi di infezione, trattamenti e possibili vaccini. I topi sono sicuramente il modello più diffuso, in cui l’infezione avviene attraverso virus sospeso in gocce somministrate per via intranasale. Tuttavia, i topi non mostrano riattivazione tipica degli herpes virus, mentre noi tutti sappiamo che l’herpes ogni tanto riappare, come cantano gli Afterhours: «L’amore passa, l’herpes è per sempre». Per questo motivo sono stati sviluppati modelli in porcellini d’india e conigli, i quali mostrano la riattivazione tipica del HSV umano. In questo articolo è possibile trovare tutti i parametri studiati nei vari modelli, dal meccanismo di «uptake antigenico» da parte degli astrociti (ossia come il sistema immunitario riconosce che c’è qualcosa di estraneo nell’organismo) all’attivazione e migrazione dei linfociti verso il sistema nervoso, vero obiettivo finale degli herpes virus, dai già citati meccanismi di riattivazione allo sviluppo di terapie e vaccini. Tutti gli antivirali efficaci contro HSV sono stati sviluppati a partire da questi modelli animali.
CITOMEGALOVIRUS
Non sarà «famoso» come altri suoi colleghi, ma il Citomegalovirus umano (conosciuto comunemente come CMV) è un ospite decisamente sgradevole e, purtroppo, estremamente diffuso. Fa parte anch’esso della famiglia degli Herpesviridae e ne esistono diversi ceppi, tutti specifici per esseri umani, primati e altri mammiferi. Il ceppo HCMV è quello che colpisce l’uomo ed è il più studiato. Individui con un sistema immunitario sano lo possono contrarre in maniera asintomatica o sviluppare generalmente una mononucleosi. Il problema si presenta con pazienti immunocompromessi come neonati, malati di Aids o persone che hanno recentemente subito un trapianto. In questi casi, HCMV può causare polmoniti, epatiti, coliti e via dicendo. Fino, talvolta, alla morte.
Il modello animale storicamente più usato per infezioni da CMV è il porcellino d’india. Questo è giustificato sia da una serie di ragioni di omologia genetica e anatomia, visto che la struttura placentaria di questo animale è simile a quella umana e permette quindi lo studio della trasmissione in gravidanza. Grazie al modello in porcellino d’india, è stato possibile non solo studiare i meccanismi fisiopatologici che seguono una infezione da CMV ma anche provare l’efficacia terapeutica del ganciclovir e del valganciclovir, a oggi la prima linea di difesa contro HCMV in pazienti immunocompromessi. Il modello è stato anche la base per testare il vaccino «recombinant gB subunit», a oggi in fase di sperimentazione clinica. Anche i topi sono stati utilizzati come modello per mettere a punto un altro antivirale efficace contro HCMV, il letermovir. Con il passare degli anni sono stati sviluppati modelli di studio anche in macachi, più simili all’uomo e quindi in grado di fornire risposte più specifiche.
HIV
Adesso ci troviamo di fronte alla vera «superstar» della virologia. Chiunque si approcci a queste tre lettere, lo fa con lo stesso terrore e ammirazione dei bambini di Jurassic Park davanti al recinto del T-Rex. È spesso identificato come simbolo stesso dei virus e la malattia che esso genera, l’Aids, è considerata alla stregua di una piaga biblica. Dopo la scoperta agli inizi degli anni 80, la sua popolarità crebbe in maniera vertiginosa a tutti i livelli, portò a morti illustri (Freddie Mercury, per dirne una), invase i mass media, generò simboli, manifesti, eventi, concerti, raccolte fondi e persino negazionisti (forse il primo caso nella storia della medicina moderna, prima degli attuali no-vax). Insomma, più che un semplice virus, l’HIV è letteralmente un simbolo della cultura popolare. HIV è un retrovirus del genere Lentivirus; ne sono stati individuati due ceppi (HIV-1, il più diffuso, e HIV-2), a loro volta suddivisi in vari subgruppi.
A livello scientifico, ovviamente, è a sua volta un simbolo. Non si è mai vista, nella storia della scienza, una rapidità così impressionante nello scoprire terapie, ogni volta più decisive e risolutive. Nel giro di 30 anni siamo passati dal trovarci di fronte a una malattia totalmente sconosciuta alla possibilità di poterla eradicare completamente. Questo risultato ha una sola e unica, cinica, spiegazione: il denaro. Tutt’oggi HIV e Aids sono i campi di ricerca a cui si destinano più fondi in tutto il campo dell’infettivologia (non soltanto virus, ma anche batteri, parassiti, prioni). Oggi conosciamo praticamente tutto dell’HIV e, nella maggioranza dei casi, lo conosciamo fin nel minimo dettaglio: come entra nell’organismo, come entra nelle cellule, come si replica, i tempi di incubazione, il quadro clinico che esso genera e via dicendo. E tutto questo lo sappiamo grazie anche ai modelli animali.
Com’è facile immaginare, la letteratura scientifica riguardo HIV/Aids è sterminata (frutto dell’ingente investimento di capitali nella ricerca). Pretendere di riassumere qui le scoperte fatte grazie agli animali riguardo l’HIV è pura utopia. Mi limiterò quindi a un brevissimo riassunto. La cosa in assoluto più sorprendente è che, trent’anni e innumerevoli pozzi di dollari dopo, non esiste ancora un vero modello animale di AIDS in grado di riprodurre tutte le caratteristiche dell’infezione da HIV prima e della malattia di immunodeficienza dopo. Il SIV, l’equivalente di HIV in scimmia, è senza dubbio il modello più diffuso nella letteratura. Negli anni è stato anche sviluppato un modello di SIV «adattato all'uomo», chiamato SHIV, mescolando i genomi dei virus che colpiscono rispettivamente uomo e scimmia. Questi due modelli si sono rivelati fondamentali per lo sviluppo di candidati vaccini che ad oggi sono arrivati anche in fase di trial clinico 3. Per esempio, ALVAC e AIDSVAX si rivelarono, singolarmente, inefficienti nel prevenire un’infezione da HIV. Eppure, in uno studio successivo, si dimostrò come il 30 per cento dei soggetti trattati con la combinazione di entrambi, chiamata RV 144, era immune all’infezione. Le terapie antiretrovirali tuttora in uso sono state testate su modelli di SIV e SHIV e anche la nuova frontiera della cura per l’AIDS, l’uso di cellule staminali, si è avvalsa di questi modelli (due esempi qui e qui). Anche i topi sono stati utilizzati per studiare nuove strategie di prevenzione dell’infezione da HIV e cura dell’Aids. In questa review, ci sono molti esempi di come modelli di topo «umanizzati», ossia geneticamente modificati per avere proteine umane e quindi essere modelli validi per lo studio di HIV, vengano usati per lo studio di terapie basate su cellule staminali.
HCV
Dietro questa sigla si nasconde una delle sfide più ardue della scienza moderna. Il virus dell’epatite C è stato uno dei primi, sorprendenti punti di incontro tra virologia ed oncologia, vista la ormai chiara evidenza che una infezione cronica di HCV può portare all’insorgenza di cancro al fegato. Il virus HCV appartiene al genere Hepacivirus, a cui appartengono anche i virus che causano epatite A e B. A differenza di questi ultimi, però, il virus dell’epatite C è l’unico per il quale non è ancora disponibile un vaccino.
Generare un modello animale di HCV si è rivelato da sempre una sfida complicata per molte ragioni. La risposta immunitaria che il virus evoca è una risposta complessa che include entrambe le «branche» del nostro sistema immunitario, tanto quella innata, ossia la nostra prima, generica linea di difesa, quanto quella adattativa, più lenta e mirata. L’unico animale dimostratosi adatto all’infezione da parte di HCV è lo scimpanzè. Grazie a questo animale, abbiamo potuto comprendere gli eventi che avvengono durante le prime fasi dell’infezione (generalmente del tutto asintomatiche), il ruolo dei linfociti B e T («soldati» dell’immunità adattativa) e degli anticorpi nel neutralizzare il virus. E così via. Grazie agli scimpanzè, sono stati anche sviluppati alcuni candidati vaccini attualmente in fase di sperimentazione clinica. Sempre in questi animali sono stati testati i trattamenti tuttora in uso, come per esempio l’interferone solo o in combinazione con altri antivirali. Il loro utilizzo, tuttavia, è poco economico e pone non pochi ostacoli etici. Per questa ragione, si è puntato sempre di più sullo sviluppo di modelli in roditori o mammiferi inferiori. A oggi, esistono diversi modelli, ognuno con dei limiti. Il più famoso è un topo immunodeficiente (quindi incapace di produrre linfociti B e T) il cui fegato è formato in parte da epatociti umani. Questa tecnica, chiamata chimerizzazione, permette un’efficiente infezione del topo con HCV e quindi lo studio di meccanismi, terapie e vaccini. Esistono tuttavia delle limitazioni: non potendo produrre linfociti B (che producono anticorpi) e T, questi topi ci permettono di concentrarci solo sull’immunità innata, impedendo lo studio dell’altra «metà» della malattia. In questa review, se vorrete, troverete un esaustivo ripasso dei più comuni modelli animali usati per studiare HCV e i principali risultati raggiunti con ognuno di essi.
CORONAVIRUS
Arriviamo quindi al tema più scottante dell’ultimo periodo: il Coronavirus. Questa storia, in realtà, inizia nel 2002 in maniera molto simile a quanto accaduto recentemente. In Cina è abitudine consumare carne di animali selvatici, spesso in assenza di qualunque controllo sanitario. Nella provincia di Guangdong esplose una epidemia dovuta al consumo di, presumibilmente, una zuppa di pipistrello infetto dal virus SARS-CoV. Ricordiamo tutti l’epidemia di SARS che lasciò uno strascico di più di 8000 infetti e un totale di 774 decessi. A dicembre 2019, il consumo non regolamentato di animali selvatici, di nuovo presumibilmente pipistrelli, questa volta infetti dal virus SARS-CoV-2, ha scatenato l’epidemia che, a oggi, conta oltre 350mila infetti e quasi 37.000 morti. Quello che sta accadendo è semplicemente la storia che si ripete (in peggio). L’utilizzo di animali selvatici non è solo destinato al consumo di carne, ma anche alla medicina tradizionale cinese. Ne deriva che è estremamente complicato per le autorità cinesi scoraggiare o addirittura proibire il consumo di questi animali e sicuramente non è facile, dall’oggi al domani, smontare tradizioni radicate da millenni. Il risultato, oggi come nel 2002, è che, in mancanza delle dovute contromisure da parte delle autorità cinesi nel controllare il consumo di carne non regolamentata, ci troviamo ad affrontare oggi una nuova, complicatissima sfida.
Se SARS-CoV era il virus causante della SARS, SARS-CoV-2 è il virus responsabile della malattia Covid-19 che è diventata pandemica in questo inizio di 2020. Tecnicamente, entrambi i virus sono coronavirus, in quanto appartenenti alla famiglia Coronaviridae. Questo dettaglio può apparire superficiale, ma è in realtà quello che molto probabilmente ci permetterà di uscire da questa situazione. I due virus condividono molti meccanismi e funzionano in maniera molto simile. Dal 2002, anno di esplosione della SARS, a oggi, molta ricerca è stata fatta su SARS-CoV e tutti quei risultati possono essere utilizzati oggi come base di studio per risolvere il problema di Covid-19. Sebbene SARS-CoV fosse in grado di infettare diverse specie, tra cui topi e furetti, nessuna di queste sviluppava poi i sintomi respiratori acuti tipici della malattia.
Nel 2003 venne pubblicato un articolo su Nature in cui si dimostrò che il virus SARS-CoV utilizzava una proteina chiamata angiotensin-converting enzyme 2 (abbreviata in ACE2) presente sulla superficie delle cellule come “porta di entrata”. Tra 2006 e 2007 furono pubblicati due articoli (li trovate qui e qui) in cui si presentava un modello di topo transgenico le cui cellule, sulla propria superficie, presentavano la versione di ACE2 umana (chiamata hACE2). Una volta generati questi topi e infettati con SARS-CoV, questi presentavano tutti i sintomi respiratori che i topi con la ACE2 tipica della loro specie non presentavano. Quello fu il primo modello animale di SARS. Non vi sorprenderà quindi sapere che a fine febbraio è stato pubblicato un articolo (lo trovate qui) in cui si dimostra come topi transgenici con hACE2 possono essere infettati in maniera efficace da SARS-CoV2 e sviluppare i sintomi di Covid-19.
Tutto risolto, quindi? Ovviamente no. Un modello animale è uno strumento, non una soluzione. Questo modello sarà un complemento fondamentale per sviluppare una soluzione - sia essa trattamento o vaccino, se non entrambi - per questa pandemia. La mia non è presunzione di parte e neanche positivismo ottuso. Si tratta piuttosto di semplice osservazione del passato. Ogni volta che abbiamo sviluppato dei modelli animali efficienti di infezione virica, siamo riusciti a creare le condizioni ideali per il successivo sviluppo di una soluzione alle epidemie. In attesa di tempi migliori, buona quarantena a tutti.