Sono molto arrabbiato
Poco meno di un milione i giovani italiani depressi. Enormi le responsabilità della politica di fronte a chi non può realizzare un progetto di vita
Sono arrabbiato. Sembra che sia un fenomeno estivo, come i cicloni e gli anticicloni, scoprire che i giovani sono depressi. L’allarme è stato lanciato nell’estate del 2005, poi nel 2007 e nel 2012, e adesso ci risiamo. Sugli oltre due milioni e mezzo di italiani che soffrono di depressione (la controprova è data dalla prescrizione dei farmaci), i giovani, secondo i dati Istat appena resi noti, sono più del trenta per cento. E, al contrario che nelle altre classi di età, sono generalmente di sesso maschile. Il motivo è sempre lo stesso: non trovano lavoro, oppure trovano un lavoro precario e sottopagato.
Sì, sono loro. Gli ex bambini sempre accontentati, gli ex adolescenti drogati di play station, i “bamboccioni” e i “choosy” (viziati) messi alla gogna da un paio di ministri. Sono sempre loro, e sono una maledetta scocciatura. Perché si presentano in ventimila a un concorso per cento posti di lavoro, si presentano in centinaia di migliaia ai test per facoltà universitarie col numero chiuso, intasano i marciapiedi con lunghe code per le assunzioni di uno o due camerieri in un fast food, e si sono talmente immedesimati nel ruolo di essere la cattiva coscienza del Paese da occupare quasi in pianta stabile la Posta col Direttore dei vari quotidiani e settimanali.
Quando sono arrabbiato, mi va di scherzare ferocemente. Ma ora smetto, perché nel ricordo mi si affaccia la tragica esortazione del grande Eduardo ai giovani di Napoli: “jatevenne”, andatevene. Era tanti anni fa, e il Nord guardò con raccapriccio e incomprensione a quell’accorato finale di partita tra speranza e disperazione. Adesso no. Adesso anche il Nord capisce. Ciò che non era riuscito dal 1860, data fatidica dell’unità d’Italia, è riuscito alla cattiva gestione della politica e alla crisi economica. Sud, centro e nord Italia sono uguali: le imprese fallite pareggiano il numero, le file di saracinesche abbassate rendono identiche le strade di Torino e di Bari, i cuori di chi è giovane e deve farsi una strada sono pieni di paura a Firenze e ad Aosta, a Bologna e a Cagliari.
Un anno fa papa Francesco, ricevendo un gruppo di giovani, parlò di questa depressione, e disse: «Quando un giovane mi dice ‘che brutti tempi, questi, Padre! Non si può fare niente!’, io lo mando dallo psichiatra. Perché non si capisce un ragazzo o una ragazza che non vogliano fare una cosa grande: la ricerca della bellezza, della bontà e della verità». Jacopo Fo, il figlio di Dario, si arrabbiò col papa. Aveva torto su quasi tutto, ma in una cosa aveva ragione: la depressione di chi non riesce a farsi un progetto di vita non è una patologia psichiatrica, non ha bisogno di modulatori del tono dell’umore e di ansiolitici. Ha bisogno invece di una società che prenda finalmente in serissima considerazione il problema dei giovani, e che si vergogni di averlo fatto diventare un problema.
In Europa il suicidio è la seconda causa di morte per gli adolescenti ed è la prima per i giovani da 25 a 34 anni. Togliersi la vita nel cosiddetto fiore degli anni presuppone che il finale di partita tra speranza e disperazione si sia volto al peggio, ma a mio giudizio - e non credo di sbagliarmi - questa depressione solo in pochi casi è una vera patologia. È il tremendo risultato di un “non accoglimento” da parte della famiglia e della società. Fare sacrifici per un figlio non basta. Dargli una cospicua paghetta settimanale o mensile non basta. Comprargli vestiti e accessori griffati è una pessima idea. Rendere la scuola efficiente e “smart”, con computer e inglese, non basta. Con i bambini e con i ragazzi bisogna parlare, condividere emozioni, cercare la bellezza e la verità, proprio come ha detto Papa Francesco. Che cosa significa che continuino a chattare, che vivano in funzione dei contatti via Facebook e Twitter? Significa che vogliono parlare, confidarsi, sognare insieme, indignarsi, ridere.
Bene, facciamoli parlare “dal vero”, non in modo virtuale. Più dialogo vero con i genitori, con i fratelli, con gli amici. E che la scuola sia aperta tutto il giorno, come un campus. Per sport, incontri, attività. Lo sballo in discoteca si cerca se non c’è nient’altro, se latitano motivazioni. Diamogliele, occupiamoli, incontriamoli. È costoso? E’ in queste cose che il Paese deve investire. Se avremo investito sui ragazzi, non possiamo certo lasciarli quando stanno diventando giovani uomini e giovani donne. Che il Consiglio dei Ministri si chiuda dentro in seduta permanente, e decida d’urgenza come dare ai giovani un progetto di vita e un lavoro. Vietando lo sfruttamento, promuovendo la buona gestione delle cosiddette “risorse umane”. Dare ai giovani un lavoro decente e una casa a prezzo affrontabile non è un’utopia, è un’emergenza. E ricordiamoci: non vogliono andare a Ibiza, ma prendere in braccio un figlio.
Umberto Veronesi