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Si fanno troppi errori medici?

A leggere i giornali c’è da spaventarsi  a vedere le tante e recenti denunce di presunti errori dei medici.  E mi si chiede se c’è ancora da fidarsi dei medici, e dei chirurghi in particolare. Certamente molte di queste denunce sono state fatte in uno stato di comprensibile disperazione per un lutto o una grave malattia.  Ma altrettanto certamente, i medici sbagliano, possono sbagliare.

Si fanno troppi errori medici?

A leggere i giornali c’è da spaventarsi  a vedere le tante e recenti denunce di presunti errori dei medici.  E mi si chiede se c’è ancora da fidarsi dei medici, e dei chirurghi in particolare. Certamente molte di queste denunce sono state fatte in uno stato di comprensibile disperazione per un lutto o una grave malattia.  Ma altrettanto certamente, i medici sbagliano, possono sbagliare.

Ogni anno, in Italia,  circa 15mila medici sono raggiunti da citazione o denuncia. I due terzi di essi  sono assolti, ma il grande numero dei procedimenti avviati dimostra che qualcosa non funziona, nei rapporti tra i medici e i pazienti. I progressi della scienza medica sempre di più salvano e guariscono, e sempre di più i malati e le loro famiglie nutrono fiducia nella salvezza e nel recupero della salute, ma questa fiducia cade di colpo se l’evento favorevole non si verifica. E si diffonde  un clima di conflittualità, che non giova affatto a mantenere la “scienza e coscienza” del medico. In America ormai il chirurgo va in sala operatoria con l’ avvocato, per così dire. Per tutelarsi da eventuali cause che il malato gli può fare.

E’ un arretramento della medicina, perché il medico perde la sua indipendenza di giudizio, e magari non osa prendere iniziative terapeutiche che un domani gli si possano ritorcere contro. Si parla tanto di accanimento terapeutico, ma non si parla mai del suo contrario. In America,  se  un chirurgo vede un paziente con un tumore difficilmente operabile, di solito si astiene dall’intervento, perché se poi il paziente muore il medico rischia una denuncia per “malpractice”. E ci sono anche casi più sottili. Per esempio, se un chirurgo può scegliere tra un intervento difficile (che però assicurerà al paziente una migliore qualità di vita) e un intervento più facile (che non darà questo risultato) è molto probabile che non faccia nemmeno lo sforzo di spiegare la cosa al paziente per permettergli la scelta (il cosiddetto “consenso informato”)  e che imbocchi direttamente una strada che è più semplice per lui ma meno vantaggiosa per il paziente.

Perché queste riflessioni? Perché penso che sia urgente recuperare  tra medici e pazienti  un rapporto più civile, più sereno. Un rapporto senza il quale non ci può essere quella “alleanza terapeutica” che dà per il malato i risultati migliori.

Si parla poco o si conosce poco la solitudine angosciosa del medico che deve decidere. Chi però l’ha vissuta, sa quanto siano acuti i dubbi e le incertezze che l’alimentano.  Quante volte ci si trova, nell’isolamento della sala operatoria, a dover decidere se procedere in un intervento complesso e pericoloso pur di eliminare una massa tumorale. Non si sta sbagliando, si sa  ciò che si fa. Ma  non è possibile prevedere sino in fondo ciò che avverrà. Il paziente potrebbe non farcela. Gli si toglierebbe perciò un periodo di vita, magari non lungo ma che gli appartiene per diritto naturale. Fermarsi, allora? Ma astenersi  dall’intervento significa annullare ogni chance, per quanto ridotta, di guarirlo definitivamente. Certamente vi sono casi chiaramente inoperabili, in cui l’intervento non dà alcun risultato né in termini di guarigione né in termini di soluzione provvisoria. Se non si hanno soddisfacenti probabilità di sopravvivenza, se non c’è questa condizione di speranza,  davvero l’intervento è inutile, e non può essere giustificato in alcun modo, nemmeno invocando l’interesse della scienza a sperimentare per progredire. 

La decisione di operare o no, di andare avanti nell’intervento o fermarsi perché il quadro operatorio è improvvisamente cambiato deve essere presa in pochi minuti, spesso uno o due minuti, in una condizione di tensione fisica e psichica inaudite, e con scarso margine di manovra. E’ giusto parlare di “errore”, se qualcosa va male? 

Ed è sempre il medico che deve trovare la risposta caso per caso, lui solo davanti alla sua scienza ma soprattutto alla sua coscienza. Deve decidere. Sapendo che può sbagliare, e cercando di non sbagliare.

A me, dopo mezzo secolo di professione, capita spesso di sentirmi angosciato al momento di prendere una decisione. Mi arrivano casi difficili, quelli che hanno già passato mille filtri e mille terapie diverse. La mia è la decisione finale, quella della cassazione. E vivo attimi di tensione fortissima, perché so di avere una responsabilità enorme.   Nel 2003, il British Medical Journal  pubblicò le osservazioni fatte da un dirigente medico del National Health System, il sistema sanitario inglese, nel corso di una conferenza sulla sicurezza del paziente.  Secondo questo esperto, «raramente la colpa degli errori commessi nella pratica clinica ricade sul singolo operatore sanitario, più spesso la colpa è dell’intero sistema».



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