Sarò buonista, ma sui terroristi suicidi la penso così
Il fenomeno dei kamikaze è molto più complesso di quanto appaia dalla lettura dei media occidentali. Non è l'origine a portarli a "farsi esplodere"
Prima di tutto voglio contestare un’espressione abusata da tutti i media a proposito dei terroristi suicidi: «Si è fatto esplodere». No, non ci siamo, e non è soltanto un errore semantico. Il corpo umano non è né nitroglicerina né dinamite, e di per sé non può esplodere. Quindi l’espressione non è solo sciatta, ma pericolosa, perché rende usuale un’idea quasi robotica del terrorista, e si può dire che completi un suo essere assolutamente «alieno» da noi, incomprensibile e lontanissimo. Capisco la necessità, politica ed etica, di mettere la massima distanza tra noi e questi fanatici assassini, ma voglio abbandonare il mondo delle idee approvabili e riconosciute, e spingermi al di là delle nostre moderne Colonne d’Ercole. Non senza premettere che sarebbe colpevole qualunque romanticismo, anche quello che ancora avvolge i cosiddetti «kamikaze» (ma nel loro Paese non li chiamano così), cioè i giovanissimi piloti giapponesi che volutamente andavano a schiantarsi con il loro aereo contro gli aerei o le navi dei nemici, e che prima della mortale picchiata lanciavano fiori dal finestrino. L’analogia però si ferma qui: a morire per dare la morte. Quelli erano combattenti contro combattenti, questi colpiscono civili inermi.
Spingendomi al di là delle Colonne d’Ercole, mi permetto di recuperare il profilo umano di questi islamisti fanatici, ai quali posso accreditare la fede, ma non riesco ad accreditare la fiducia in un paradiso pieno di belle ragazze, vagamente somigliante ai sogni erotici. È sufficiente per superare il terrore di uccidersi? Forse semplifica le cose per la nostra mentalità occidentale, ma è turpe come una barzelletta raccontata alla Morte. Per capire che cosa li spinge ad uccidere e ad uccidersi non basta l’indottrinamento dei fondamentalisti, o perlomeno costituisce solo una spiegazione parziale, insufficiente. Sono drogati? L’ipotesi è stata fatta, ma non voglio offenderli rievocando l’antica leggenda araba riportata da Marco Polo, col Vecchio della Montagna che tramite droghe trasformava i giovani in assassini agli ordini di un suo sciagurato disegno. Del resto, non ricordo che l’ipotesi della droga sia stata confermata da un riscontro autoptico, eppure il «materiale» non è certo mancato.
E allora? In un momento come questo, in cui tutte le spiegazioni sociologiche raccolgono un ben concertato discredito, e in cui cercare di capire le cause dei fatti procura il beffardo giudizio di essere «buonisti», io ugualmente voglio chiedere se un giovane con un lavoro stabile e uno stipendio decente si presterebbe a indossare la cintura esplosiva che lo dilanierà insieme alle vittime. Dove vivevano e che cosa facevano questi giovani, prima di trasformarsi in terroristi? Non basta dire che sono i nemici «interni» delle democrazie occidentali, giovanotti che viaggiano e vanno a imparare come si manovra la dinamite. È una grande ipocrisia qualificarli anagraficamente, cioè come francesi, o belgi, o inglesi. È «politicamente corretto», ma aumenta i risentimenti nazionalisti, perché suggerisce all’opinione pubblica che questi tipi siano dei disadattati o degli sfaticati, che non hanno saputo sfruttare l’opportunità di nascere e di crescere in un Paese civile. Ora sono i nostri nemici, e troppe voci invocano la «guerra giusta». Con droni, bombardamenti e truppe sul terreno. Avanti, suoniamo le trombe. Ma avete mai provato a vivere in zone del mondo in cui dall’oggi al domani la vostra casa non c’è più, e viene trucidata tutta la famiglia bimbi inclusi? E a Parigi, Londra o Roma, avete mai provato a cercare lavoro con la faccia e il nome da arabi?
Umberto Veronesi