Perché la gente non canta più?
«Professore, perché la gente non canta più?» Qualche giorno fa è venuto a trovarmi un infermiere in pensione, con cui ho lavorato insieme tanti anni all’Istituto dei Tumori di Milano. E mi ha rivolto questa domanda, che improvvisamente mi ha reso consapevole di un cambiamento che non avevo notato. Sì, è vero. Prima la gente cantava. Cantavano le donne mentre facevano i mestieri di casa, cantavano i muratori sulle impalcature, cantavano i garzoni che portavano il pane, e mi ricordo anche un’infermiera che cantava a voce spiegata riordinando la sala operatoria dopo gli interventi di fine giornata.
«Professore, perché la gente non canta più?» Qualche giorno fa è venuto a trovarmi un infermiere in pensione, con cui ho lavorato insieme tanti anni all’Istituto dei Tumori di Milano. E mi ha rivolto questa domanda, che improvvisamente mi ha reso consapevole di un cambiamento che non avevo notato. Sì, è vero. Prima la gente cantava. Cantavano le donne mentre facevano i mestieri di casa, cantavano i muratori sulle impalcature, cantavano i garzoni che portavano il pane, e mi ricordo anche un’infermiera che cantava a voce spiegata riordinando la sala operatoria dopo gli interventi di fine giornata.
Intanto il mio amico infermiere m’incalzava. Mi ero accorto che non solo la gente non canta più, ma che in treno non chiacchiera più? «Professore, nella prima classe sono sempre stati pesci muti, ma in seconda classe e in terza classe (quando c’era) la gente parlava e parlava. Al punto che nei viaggi di notte c’era sempre uno che continuava a parlare, e gli altri ormai lo imploravano con gli occhi di lasciarli dormire.»
Sì, mi ricordo. Era come un’orchestra. C’era sempre un uomo, in genere di mezza età, che cominciava a vituperare la politica e a invocare cambiamenti radicali, per poi salire gradatamente verso l’esposizione di una sua filosofia di vita. Era il primo violino, e diventava il direttore d’orchestra quando man mano al suo dire si aggiungevano come flauti le deplorazioni delle donne che raccontavano disavventure e disgrazie, poi i giovani attaccavano con i suoni beffardi delle cornette, infine qualcuno tentava di mettere pace con un largo e smorzato concerto di violoncelli che esortavano alla pazienza.
«Professore, si ricorda i capannelli sul sagrato del Duomo? Ecco, anche questi non ci sono più.» Sì, a Milano erano una specie d’istituzione. Ma c’erano anche nelle piazze di altre città. Erano il modo di confronto e di discussione dei cittadini che si trovavano a passare, una specie d’improvvisata agorà, il termine dell’antica Grecia che indicava la piazza principale della città, la polis, e che poi passò a significare il luogo di discussione per antonomasia. Nei capannelli di piazza del Duomo ci si confrontava, ci si accalorava, ci si arrabbiava sui problemi politici, o sui fatti del giorno. Volavano anche insulti, ma blandi e tutto sommato cortesi, non come negli attuali faccia a faccia della tv.
C’era passione, in quello che i cittadini si dicevano, e in modo un po’ ingenuo veniva fuori quello che i filosofi dicevano della città di Atene, la polis per eccellenza: «E’ un luogo con case, mercati, templi e teatri, ma sono gli ateniesi a fare la polis.»
Umberto Veronesi