Non si gioca a dadi con la vita dei malati
E' immorale che quando si arriva alla sperimentazione clinica i pazienti vengano divisi tra chi viene curato e chi non viene curato
E’ immorale. Creando sensazione, l’ha affermato il Comitato Etico di questa Fondazione, e io lo ripeto, sempre più convinto che non dobbiamo abituarci a procedure e a sistemi che sembrano perfezionare i percorsi scientifici, ma in realtà vanno contro il bene dei pazienti.
Sì, è immorale che quando si arriva alla sperimentazione clinica – vale a dire la sperimentazione sull’uomo – i pazienti vengano divisi tra chi viene curato e chi non viene curato. I malati vengono assegnati casualmente, tirando a sorte, a due distinti gruppi. I primi prendono i nuovi farmaci, potenzialmente e quasi sempre più efficaci dei trattamenti standard somministrati agli altri. Se una cura non esiste, al secondo gruppo (il cosiddetto «gruppo di controllo»), viene dato un placebo, cioè una sostanza inerte, che equivale a un non-trattamento.
Trovo inaccettabile che si giochi a dadi con i malati, e voglio ricordare che quando nel lontano 1973 io e il grande filosofo della scienza Giulio Maccacaro fondammo all’Istituto dei Tumori di Milano il primo comitato etico in Italia, scrivemmo sulla porta della stanza in cui ci riunivamo una frase che riassumeva in modo efficace i doveri che la scienza e la medicina hanno verso l’uomo: «Tutto è concesso all’uso della scienza per l’uomo; tutto è negato all’uso dell’uomo per la scienza».
La ricerca scientifica deve progredire per il bene dell’umanità, ma a mio parere nulla può essere anteposto al bene del malato, per quanto nobili possano essere le intenzioni e per quanto grandi possano essere gli obiettivi da raggiungere. A volte, per non imboccare una strada cattiva, alla scienza può essere utile ricordare che cosa succede quando si abbandona l’uomo. Non voglio citare i crimini dei medici nazisti, e mi limito a ricordare una storia che è successa in tempi abbastanza recenti nella civile e democratica America. Porta il nome di una piccola cittadina dell’Alabama, Tuskegee, ed è la storia della sifilide non curata. Fu addirittura il servizio pubblico della sanità ad avviare la sperimentazione, nel 1932. Si voleva seguire l’evoluzione naturale della malattia. Vennero reclutati, con la scusa di offrirgli cure contro il «sangue cattivo», 399 inconsapevoli afroamericani malati di sifilide, e altri 201 ai quali la malattia fu inoculata: un vero crimine, perpetrato su gente povera e quasi analfabeta, in una società razzista.
Nel 1940 fu scoperta l’efficacia della penicillina per curare e guarire la sifilide, ma lo studio (definito in seguito come «il più infame nella ricerca biomedica nella storia degli Stati Uniti») andò avanti per decenni. Inutile raccontare le sofferenze e la morte di tanti uomini. E la funesta catena della malattia comunicata alle donne, le quali a loro volta la trasmisero ai loro nascituri. Vite perdute. Finalmente nel 1972 una fuga di notizie portò alla ribalta nazionale l’inqualificabile studio. Ci fu un’indagine approfondita, ma non si sa se i responsabili di questa ricerca «deviata» pagarono il prezzo della loro colpa. Il 12 luglio 1974 fu approvato il National Research Act, che dettava regole stringenti e istituiva una commissione per la protezione dei soggetti umani nella ricerca biomedica.
Nel 1997 il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, chiese perdono alle vittime e alla nazione americana. Ma non c’è un lieto fine. I Paesi del benessere e della democrazia forse ormai riescono a tenere in pugno la scienza delle ambizioni sbagliate e degli affari multimiliardari, ma i Paesi più poveri sono lì inermi, esposti ad ogni abuso. La chiamano «globalizzazione della ricerca», ma è un’altra cosa.
Umberto Veronesi