Mammografia: quando l’informazione è irresponsabile
Cosa succede se i media raccontano in maniera sbilanciata e parziale uno studio già di per sè imperfetto?
Ho visto più di un congresso internazionale in cui un relatore è stato brutalmente demolito in pubblico ed è sceso dal podio balbettando e inciampando. E’ quello che sta succedendo nell’arena informatica del British Medical Journal, nello spazio che ospita le osservazioni su un lavoro appena pubblicato. Si tratta del trial canadese dell’Università di Toronto (Anthony Miller e coll.) sull’utilità degli screening mammografici ai fini della sopravvivenza. La ricerca, pubblicata sul BMJ l’11 febbraio scorso, è stato condotta per 25 anni su 89.835 donne, e l’obiettivo dichiarato è stato quello di confrontare l’incidenza e la mortalità per tumore della mammella in donne che avevano fruito o no di uno screening mammografico. Misura principale dell’outcome, cioè del risultato, erano i decessi per cancro della mammella.
E’ saltato fuori che il numero dei decessi era pressappoco uguale nei due gruppi, ed è stato come un colpo di cannone: la notizia, sparata dal New York Times, è rimbalzata in tutto il mondo, vestendo immediatamente panni sensazionalistici: la mammografia non serve a niente, non salva la vita. Un evidente fraintendimento (voluto o no) di uno studio che aveva soltanto manifestato dubbi sull’utilità degli screening mammografici. Va spiegato che lo screening è un’indagine generalizzata su tutta una popolazione o parte di essa ed ha valore ben diverso rispetto a un esame singolo usato nella diagnostica precoce alla ricerca di un tumore. Dubbi sugli screening si sono dimostrati fondati per gli screening di prevenzione del cancro della prostata tramite la misurazione del Psa nel sangue. Ma sono due cose diverse. Mettere in dubbio l’utilità degli screening non è come mettere in dubbio l’efficacia di un insostituibile strumento per la diagnosi precoce, ma tant’è.
Mi spiace che questa polemica possa far affiorare dubbi pericolosi e immotivati. La maggior parte dell’oncologia europea è con me nel rassicurare le donne su un punto preciso: per il tumore del seno la diagnosi precoce salva la vita. La mammografia è preziosa per rivelare i tumori impalpabili, che noi chiamiamo «occulti». Gli autori dello studio canadese criticano l’eventuale allargamento della mammografia, ma invece noi dell’Istituto Europeo di Oncologia, che abbiamo individuato e guarito il 98,7 per cento di 1.200 tumori occulti, siamo proprio per l’estensione della mammografia: a partire dai 30 anni e una volta all’anno dopo i 40 anni. Più il tumore è piccolo, più è guaribile. Noi vogliamo arrivare a guarire una percentuale di casi vicina al 100 per cento.
Francamente, mi auguro che il polverone alzato dalla ricerca canadese non danneggi questi obiettivi, che alla comunità scientifica internazionale stanno molto più a cuore della critica a una ricerca che mostra vari punti deboli e che sembra fatta più per sostenere una polemica che per il bene dei pazienti. Non mi meraviglia che le «osservazioni» pubblicate sul BMJ siano anche aspre. Ne riporto due che mi sembrano particolarmente motivate.
Scrive la radiologista Eva Rubin, del Montgomery Radiology Associates, Alabama: «Gli scienziati del computer hanno un eccellente termine per definire una produzione insensata: GIGO, che è l’acronimo dell’espressione “Garbage in, Garbage out”, cioè “Entra spazzatura, esce spazzatura” . Sfortunatamente, è proprio ciò che caratterizza il trial canadese pubblicato con tanta enfasi dal New York Times. La cascata di errori di questo trial è stata già eloquentemente descritta da altri. Mi limito a ricordare la scadente qualità delle mammografie, la scarsa preparazione di chi doveva interpretarle, l’insufficiente controllo delle anomalie dell’immagine mammografica, e infine i criteri d’inclusione delle donne nei due bracci dello studio, criteri che non hanno ottemperato a una vera scelta casuale».
La cattiva informazione è messa sotto accusa da Patrick I. Borgen, direttore della Chirurgia della mammella al Maimonides Medical Center di New York: «La vera tragedia non è un articolo che riporta e descrive i risultati di un trial profondamente imperfetto. Il problema maggiore è che il mercato dei media ha scelto di riferire che questi risultati del trial sono una valida sfida contro l’uso di routine della mammografia. La cosa più drammatica è che il New York Times ha dato una visione completamente sbilanciata di questo studio, ignorando studi più ampi e migliori, e lasciando così il lettore con l’impressione che la mammografia non sia importante. Questo è un picco di irresponsabilità».