Il Nobel della Pace all'Europa? È un premio a metà
L’Unione Europea ritira oggi il premio Nobel per la pace. Ma la pace va preparata
L’Unione Europea ritira oggi il premio Nobel per la pace. Sarebbe contento Emanuele Kant, che credette nella pace non come utopia filosofica, ma come progetto da realizzare. Sotto la lapide che reca incisa la sua frase più famosa (“Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”), il filosofo tedesco dorme da più di due secoli nella sua tomba nel duomo di Kaliningrad, e non ha mai saputo che la sua natìa Konigsberg, allora in terra prussiana, sarebbe stata conquistata dall’Armata Rossa nel 1945 e sarebbe stata annessa all’Unione Sovietica, mentre i cittadini tedeschi fuggivano o venivano uccisi. Soltanto una delle innumerevoli violenze portate dalle guerre che si sono combattute in Europa per tanti e tanti secoli.
Ora la motivazione del Nobel per la pace all’Unione Europea (“Da oltre sessant’anni contribuisce a promuovere pace, riconciliazione, democrazia e diritto umani in Europa”) registra una situazione diversa, e può delineare la speranza che la pace non sia un intervallo più o meno lungo tra una guerra e l’altra, ma divenga il modo di vivere degli uomini. Oggi l’Europa è già una realtà che pareva impensabile alla fine della seconda guerra mondiale e si avvia forse a diventare una grande realtà politica, sotto forma di una vera federazione di Stati. Con il nuovo millennio, sembra che l’Europa abbia scelto di percorrere la strada della pace, nonostante gli sfregi delle guerre che hanno insanguinato l’Europa dell’est. Ma per avere la pace come condizione naturale della società, bisogna rinunciare alle armi.
Da quattro anni “Science for Peace” si batte in questa direzione, e mi piace pensare quanto questa posizione coincida col pensiero di Kant, che nella sua opera politica “Per la pace perpetua”, sostiene che gli eserciti permanenti devono col tempo del tutto cessare: essendo la guerra l’unica finalità di questi eserciti, essi istigano alla guerra. Inoltre un esercito permanente comporta una spesa economica rilevante. La guerra è una spesa, e non un investimento.
Allora, lasciatemi dire che il Nobel per la Pace dato all’Unione Europea è un motivo di grande orgoglio per i 500 milioni di cittadini europei, ma è ancora un Nobel a metà. Quando ho fondato il movimento di “Science for Peace”, a cui hanno aderito immediatamente più di 20 Premi Nobel, ho voluto inserire tra gli obiettivi lo studio della fattibilità di un esercito unico europeo. L’Europa attualmente è dotata di ben 27 Forze Armate, che necessitano ognuna di importanti investimenti statali, pur restando per la maggior parte del tempo inattive.
A che cosa serve che ogni nazione europea abbia il suo esercito, spenda miliardi di euro in carri armati, caccia, portaerei e sottomarini? All’inizio degli anni Cinquanta, su iniziativa di Alcide De Gasperi per l’Italia e di Jean Monnet per la Francia, si propose un esercito unico europeo, come “comunità europea di difesa”. Il progetto allora fallì, soprattutto per le vicende della guerra fredda, ma adesso potrebbe essere riproposto con forza e con speranza.
I 300 miliardi di euro che l’ Europa spende ogni anno per mantenere le forze armate potrebbero invece essere investiti nella sanità, nella ricerca, nell’istruzione e nell’assistenza sociale. Come diceva Benjamin Franklin, “non c’è mai stata una buona guerra o una cattiva pace”, e il modo migliore di avere la pace è risalire alle cause delle guerre, compiendo ogni sforzo per eliminarle. Non dobbiamo più credere che per avere la pace bisogna preparare la guerra. Impariamo a pensarla diversamente: per avere la pace, dobbiamo preparare la pace.
Umberto Veronesi