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Il mio sogno di Natale

Una lettrice che è stata anche mia paziente mi ha mandato questo stralcio da «Madame Bovary» di Flaubert. E’ il ritratto del medico chiamato al capezzale di Emma moribonda

Il mio sogno di Natale

Una lettrice che è stata anche mia paziente mi ha mandato questo stralcio da «Madame Bovary» di Flaubert. E’ il ritratto del  medico chiamato al capezzale di Emma moribonda, che aveva ingoiato del veleno. L’avevo letto da giovane, non ricordavo.  La mia ex paziente, che è stata vicina alla morte e che da tanti anni vive una vita piena di gioia, sostiene che la descrizione di questo medico la fa pensare a me. Lei è una donna speciale, come molte  donne che hanno combattuto con l’Ombra, e il dolore le ha permesso di provvedersi di tanta luce da far risplendere anche un paragone immeritato, come questo che fa tra me e quel medico.

Leggetelo, comunque. Poi vi dirò cosa ne penso. 

(…) Era il dottor Larivière. Questi apparteneva alla grande scuola chirurgica uscita dal camice di Bichat, a quella generazione, ormai scomparsa, di tecnici filosofi, i quali esercitavano la loro arte con entusiasmo e sagacia, amandola  di fanatico amore (…)  Le mani di Larivière erano carnose, bellissime, sempre senza guanti, come per essere più pronte a immergersi nelle miserie. Sdegnoso di croci, di titoli e di accademie, ospitale, liberale, paterno coi poveri, virtuoso pur senza credere alla virtù, sarebbe passato quasi per santo, se l’arguzia dello spirito non l’avesse fatto temere come un demonio. Il suo sguardo, più tagliente del bisturi, scendeva dritto nell’anima e disarticolava qualsiasi menzogna dal groviglio dei pretesti e dei pudori. E attraversava la vita così, pieno di quella bonaria maestà che danno la coscienza di un grande ingegno, la ricchezza, e quarant’anni di un’esistenza laboriosa e irreprensibile.

Ecco,  non posso pensare di essere io quel medico. Alcuni tratti coincidono, altri no. Ma se avete mai provato il desiderio di essere in un certo modo, ecco che io coincido con l’affettuoso e arguto ritratto che fa Flaubert, perché è così che vorrei essere,  perché è così che ho cercato di essere. Eh sì, la mia arte di medico l’ho amata di «fanatico amore». Eh sì, sono stato anche un po’ un demonio.

Se lo volete, dato che le Feste sono vicine, diciamo che è un sogno di Natale, e che non è soltanto un sogno mio, ma di tutti quei medici come me che hanno tanto creduto nel loro lavoro.

Sto parlando di Dickens, e  di quel sogno che nella notte di Natale fa rivivere gli anni lontani.  Sì, ecco. E’ un autunno in città, con tanti stridori di tram e nessuna macchina. Tutt’a un tratto io e questi altri medici abbiamo gli occhi lucenti dei ragazzi, siamo al primo giorno di Medicina, e ridiamo sospingendoci nei banchi ad anfiteatro. Sogniamo di quando saremo in camice bianco, pensiamo al nostro primo paziente, ci ripetiamo che saremo bravi, umani, degni del lavoro più bello del mondo.

Poi sono venuti i giorni grigi, i giorni dei disinganni. Disinganni non solo sugli altri, ma su noi stessi. Siamo riusciti a non essere annoiati, ripetitivi, indifferenti, opportunisti, impazienti, boriosi, invidiosi, cinici?  Se ci siamo salvati, e se la stella cometa del nostro povero e pericoloso presepe è sempre il sorriso dei malati, siamo umilmente consci che la partita si chiude in pari.

Grazie, giorni e notti di fatiche e di batticuore. Grazie, mogli e mariti, che ci avete amati e sostenuti anche se sempre tornavamo a casa tardi. Grazie, colleghi che ci siete stati amici nei momenti in cui combattevamo affiancati le stesse battaglie.

E grazie alla grande galassia di idee che la scienza fa splendere nel mondo, e in cui anche l’aggregazione di un solo atomo può essere importante. Se ci abbiamo creduto, la nostra vita non è stata inutile, e quei ragazzi che si spintonavano nei banchi dell’università hanno mantenuto le promesse. Quei ragazzi non sono spariti, anzi erano qui un minuto fa: ne ho visti, alla  dolce luce del ricordo, i volti ridenti.  Buon Natale



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