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Il mio amico Gianni che cambiò la chemioterapia

Dopo aver sperimentato su se stesso la sofferenza e la paura, Bonadonna si era prefisso il compito di andare incontro all’unicità e alla dignità del malato

Il mio amico Gianni che cambiò la chemioterapia

Che cosa direbbe “il Gianni” (come noi amici milanesi chiamavamo Bonadonna) se gli raccontassi che vent’anni fa sono stato affascinato da un suo libro in cui non c’era una parola di oncologia?  Il titolo era “Il vento del diavolo”, ed era la storia della rivolta dei Sepoys, i mercenari indiani arruolati dagli inglesi. Stanchi di maltrattamenti e ingiustizie, nel 1854 si ammutinarono, molti morirono, gli altri furono duramente condannati dal tribunale militare. E’ un libro in cui si legge tutto il mistero della grande India, e in cui si legge lo spirito duro e avventuroso di Gianni Bonadonna. 

Un uomo che iniziava le ricerche “con audacia, con coraggio e con un po’ di paura”, e che raccomandava questo spirito ai giovani. Sempre far fronte agli ostacoli. E’ diventato famoso per la cura del tumore di Hodgkin e per aver cambiato la storia della chemioterapia, come quando nel 1973 propose una terapia adiuvante   per il carcinoma della mammella in fase avanzata. E famoso in campo scientifico è diventato l’acronimo della combinazione di farmaci, conosciuto come CMF: ciclofosfamide, methotrexate, fluorouracile.

I risultati furono pubblicati la prima volta sul New England Journal of Medicine  del febbraio 1976 e dimostrarono un vantaggio significativo in termini di sopravvivenza libera da malattia e in termini di qualità della vita per le pazienti così trattate. Il successo fu sottolineato dalle parole dell’editoriale pubblicato sullo stesso numero della rivista scientifica: “Bonadonna e i suoi colleghi pubblicano un lavoro d’importanza  monumentale.”  L’autore dell’editoriale, James Holland, terminava simpaticamente, scrivendo che gli osservatori americani  grazie a questa terapia adiuvante -  che si integra perfettamente con la chirurgia-  avrebbero ormai ammirato di Milano non soltanto la Scala.

Quanto abbiamo lavorato insieme, io e il Gianni. Abbiamo collaborato, discusso, ragionato sulle delusioni, abbiamo litigato anche con irruenza. Non era un uomo facile, Bonadonna, e non lo sono neanche io. Ma Pietro Bucalossi, che ci aveva voluti entrambi all’Istituto dei Tumori di Milano, aveva forse intuito la nostra possibilità di costruire una coppia sinergica, e di tracciare una nuova strada per le cure del cancro. Se penso a Bonadonna, non posso dissociarlo dal profilo degli edifici vecchiotti dell’Istituto dei Tumori, dove sono trascorsi tanti anni della nostra vita. Lui visse come un tradimento il mio impegno per l’Istituto Europeo di Oncologia, ma fu anche questo un segno di amicizia, l’ho capito da tempo.

Molti avrebbero potuto invidiare il Bonadonna dei tempi felici, quando negli Stati Uniti lo festeggiavano con un grande manifesto esposto a Times Square, il cuore di New York. O quando appariva in foto con il grande David Karnofsky, padre dell’oncologia medica. Ma lui non rilevava le invidie, o forse non gliene importava. Come non gli importava dei premi che gli sono piovuti addosso. E citava con benevolo sarcasmo gli scritti disincantati di Niccolò Machiavelli, che andava molto a genio alla sua mentalità di medico umanista. Amava il Rinascimento, l’Umanesimo. Lo attirava Firenze. Da ottimo osservatore, nella cappella medicea della chiesa fiorentina di San Lorenzo, aveva anche scoperto un probabile inizio di neoplasia nel seno sinistro della figura femminile che raffigura la Notte. Ah, poter curare la donna che aveva fatto da modella!

Quando vent’anni fa il Bonadonna che sembrava invincibile fu improvvisamente devastato da un ictus terribile, me ne accorai come per un fratello. E giorno per giorno spiai le sue capacità di ripresa. E la ripresa venne, sia pure con grandi difficoltà e nel tormento continuo dei dolori neuropatici. Aveva ritrovato la sua mente lucida e indagatrice, ma quando il corpo lo tradiva si dimostrava consapevole di essere passato “dall’altra parte”, dalla parte dei pazienti. Fece di questa consapevolezza la sua nuova missione, anche tramite la sua Fondazione “Michelangelo”, intitolata al sommo artista.

Dopo aver sperimentato su se stesso il disagio, la sofferenza e la paura, si era prefisso il compito di andare incontro all’unicità e alla dignità del malato. Su questa strada ci siamo nuovamente incontrati, con emozione. Con uomini così, non rimane il rimpianto, ma un grazie per quanto si è avuto. 

Umberto Veronesi



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