Gli agnelli sacrificali
Come ogni anno a Pasqua si ripete la strage di questi animali. Cosa rappresentano per noi? E perché, pur di fronte alla crescente sensibilità verso di essi, non riusciamo ancora a fare a meno di queste abitudini?
Ci sono tante cose che si possono ricordare di Dino Buzzati, straordinario cronista delle cose piccole, misteriose, intangibili. Una è il ricordo che fa del suo cane: dietro la scrivania aveva lasciato sul muro un’ombra che commemorava le tante ore in cui ci si era appoggiato, mentre il padrone scriveva. Il cane non c’era più. Della sua pazienza e del suo amore era rimasto solo quell’alone grigiastro. Dino Buzzati non chiamò mai l’imbianchino. Le persone ci lasciano parole che per molti anni - e qualche volta per sempre - s’intrecciano alle nostre e ci mettono di fronte alla sofferenza di un dialogo che da una parte è solo un’eco. Gli animali no, perché non sanno parlare. Ci lasciano il ricordo della loro corporeità, che rende vuote le nostre mani.
Io non amo gli animali più delle persone, ma in questo periodo pasquale non posso fare a meno di pensare alla strage degli agnellini, che sono stati i compagni della mia infanzia in una cascina. So che posso essere rimproverato perché ci sono stragi ben peggiori, come quella delle famiglie disperate che fuggono dalla fame e dalla guerra, ma in un angolino del mio io minore non mi vieto di provare anche un’inesprimibile pietà per le bestiole innocenti sacrificate ai riti della gola. Mi sono chiesto tante volte che cosa sono per noi gli animali, e perché sta diventando un segno di maturità civile la crescente sensibilità verso di essi. Io penso che infine ci siamo resi conto, al di là della millenaria diatriba sull’esistenza dell’anima (noi l’avremmo, essi no) che gli animali sono esseri senzienti, e che oltre a sentire il dolore fisico, sono capaci di sentire il senso di solitudine, la paura e l’angoscia. E’ imperdonabile farli soffrire. E’ provato che i cavalli, i cani e i gatti sognano, e che in loro esiste una dimensione dell’immaginario. Provano anche sentimenti di amicizia e di affetto. Probabilmente tutto ciò è vero anche per altri mammiferi neurologicamente evoluti, e anche se so di potermi clamorosamente sbagliare, forse questa idea può essere estesa anche ad altri animali. E’ solo l’istinto a far sì che una coppia di merli si disperi con alte strida davanti al nido saccheggiato da un rapace?
Spesso amiamo di amore assoluto il nostro cane, il nostro gatto. Ma perché li amiamo? Forse per la loro inconsapevolezza, per il loro essere fuori dalla storia degli uomini e delle loro categorie morali. Forse li amiamo perché non ci giudicano, non sanno farlo. Possiamo essere assassini, ma i cani ci amano ugualmente. Possiamo non tornare per anni, ma i cani ci aspettano. Ripenso all’incontro tra Ulisse e il suo cane: «Ed Argo, il fido can, poscia che visto/ ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse/ gli occhi nel sonno della morte chiuse». Il rapporto con gli animali da un certo punto di vista è comodo, poco impegnativo, gratificante. Il mondo umano è diverso, chiede molto di più. Anche il rapporto con un bimbo piccolo implica che confrontiamo con lui una visione del mondo, e che ci assumiamo una responsabilità nell’interagire con lui. Ai nostri animali di affezione dobbiamo solo insegnare poche semplici cose che servono a noi più che a loro, e così avremo costruito una potestà difficilmente insidiabile: ci ubbidiranno sempre.
Tutto sommato, con gli animali di affezione noi siamo «colonialisti», ma nella quasi arroganza con cui certi padroni esibiscono i loro cani, io sono disposto a vedere, al di là del fastidio, la nostalgia di un mondo più semplice, l’Eden perduto dell’innocenza. Per il breve tempo di una passeggiata con un cane che si lancia entusiasta in avanti, ritrovano l’avventura anche i giovani frustrati dall’indisponibilità dei sogni, e il vecchio pensionato che tutti si annoiano ad accompagnare.
Umberto Veronesi