Credo nell’uomo, non in dio
“Dottore, lei crede in Dio?” era il tema di un grande sondaggio-inchiesta realizzato qualche anno fa dal Corriere Salute, l’inserto di medicina del Corriere della Sera. Parteciparono migliaia di medici e una buona parte di essi rispose di sì. Mi ha raccontato il mio caro amico Luigi Bazzoli che dirigeva il giornale, che tra i medici che invece avevano risposto di non credere in Dio, uno poi telefonò desolato: «I miei pazienti che hanno letto l’inchiesta mi stanno esprimendo il loro rammarico. E mi sembra quasi che non si fidino più di me».
“Dottore, lei crede in Dio?” era il tema di un grande sondaggio-inchiesta realizzato qualche anno fa dal Corriere Salute, l’inserto di medicina del Corriere della Sera. Parteciparono migliaia di medici e una buona parte di essi rispose di sì. Mi ha raccontato il mio caro amico Luigi Bazzoli che dirigeva il giornale, che tra i medici che invece avevano risposto di non credere in Dio, uno poi telefonò desolato: «I miei pazienti che hanno letto l’inchiesta mi stanno esprimendo il loro rammarico. E mi sembra quasi che non si fidino più di me».
Ci ho pensato sopra, e mi sono interrogato: come si spiega il fatto che i pazienti si sentano, per così dire, più “garantiti” da un medico credente? Penso che vada messo in campo il discorso dei “valori” che abitualmente vengono collegati a una posizione religiosa, alla fede in Dio. E quali sono questi valori? A mio avviso credo che siano l’altruismo, la comprensione, l’onestà intellettuale, la partecipazione umana alle sofferenze e ai problemi del malato, la dedizione a un lavoro che è diverso da ogni altro. Sono qualità ed atteggiamenti che devono aggiungersi alla competenza professionale, altrimenti la figura del medico appare incompleta, e non riesce a trasmettere al malato quella fiducia che di per sé non cura, ma che aiuta la cura in modo potente.
Non ateo ma agnostico
Io non sono credente, e rispetto al problema di Dio mi considero agnostico. Sono però profondamente convinto che esista una morale laica altrettanto valida della fede in Dio. E’ un’etica della responsabilità, che ogni uomo può e deve costruire dentro di sé, e che gli deve servire da timone per dirigere le sue azioni.
Per esempio, la ricerca scientifica è sicuramente un valore, a patto però che abbia come fine il benessere dell’uomo e il progresso della società. Ricordo a questo proposito che quando nel lontano 1973 io e il grande filosofo della scienza Giulio Maccacaro fondammo all’Istituto dei Tumori di Milano il primo comitato etico in Italia, scrivemmo sulla porta della stanza in cui ci riunivamo una frase che riassumeva in modo efficace i doveri che la scienza e la medicina hanno verso l’uomo: «Tutto è concesso all’uso della scienza per l’uomo; tutto è negato all’uso dell’uomo per la scienza». Quella frase non la dimenticammo mai. Ispirò tutte le azioni che Maccacaro fece nella sua purtroppo breve vita, e per me è la stella polare che ancora mi guida nella difficile strada di combattere la malattia mettendo al centro il malato, consultandolo paritariamente e rispettandone scrupolosamente la volontà.
Nella mia lunghissima vita di medico oncologo, ho visitato e ascoltato decine di migliaia di donne colpite dal tumore del seno, e ne ho operate trenta-quarantamila. Ho avuto la gioia di guarirne moltissime, di veder progredire la ricerca scientifica e di vincere qualche importante battaglia contro il cancro, che prima era una malattia inguaribile e adesso è considerato invece sempre più curabile.
Ricordo che innescò una forte polemica una mia dichiarazione di parecchi anni fa, che cito a memoria: «I medici possono avere tutte le ragioni per scendere in sciopero, ma non devono farlo. I medici devono stare in ospedale, insieme coi loro pazienti.» Sul piano sindacale, forse avevo torto, ma allora, come ora, sono convinto di aver ragione sul piano etico. C’è chi pensa che sia sorpassato, nel XXI secolo, definire “missione” il lavoro di medico. Secondo me sbaglia, e priva se stesso della principale motivazione ideale che spinge i ragazzi a scegliere la facoltà di medicina. Questo mi riporta agli anni in cui io stesso ero un giovane studente di medicina. Motivato dall’ansia di fare ricerca, ma soprattutto spronato dall’obiettivo di poter indossare un giorno questo benedetto camice bianco, e guardare negli occhi il mio primo paziente. Un paziente da curare, che bisogna capire e comprendere a fondo per poterlo curare nel modo migliore.
Per me, cercare di capire il paziente è diventato negli anni un abito mentale che coincide al cento per cento con il mio modo di essere medico. Guardo le mie pazienti, e provo a leggere nei loro occhi come affrontano la malattia. Rifiuto, rabbia, stupore, rassegnazione, accettazione, speranza. Da quello che percepisco decido l’atteggiamento psicologico nei loro riguardi e anche l’atteggiamento terapeutico. Qualche volta mi sembra di vedere nei loro occhi la sofferenza, le inquietudini e le incertezze di tutta l’umanità.
Non credo in Dio, ma penso che il rapporto con Dio non c’entra col senso etico, e che riguarda soprattutto la relazione con gli altri uomini. Non sono un anticlericale, la trovo una posizione arretrata e limitata. Ancora mi addolora la morte precoce del mio più caro amico, don Giovanni, che era il pievano della contrada di campagna appena fuori Milano dove ho vissuto per vent’anni. Era stato una presenza gioiosa nella mia infanzia e adolescenza, poi le nostre strade si erano divise. Passarono anni, fino al giorno in cui me lo vidi davanti in ambulatorio. Aveva un tumore al colon, purtroppo molto voluminoso, e volle che fossi io a operarlo. Dopo l’intervento mi fece promettere di andarlo a trovare. Ci andai ogni mese, e furono incontri intensi, con profonde conversazioni sui temi più disparati. Mi confidò che la scoperta della malattia lo aveva posto davanti al senso della vita e al mistero della morte.
Così cominciò un lungo, appassionato colloquio tra due anime, la sua illuminata e illuminante e la mia non più credente. Ma Giovanni aveva capito. Aveva capito che se non credo in Dio, credo nell’uomo.
Per gentile concessione dal primo capitolo de “I Corsivi” del Corriere della sera