Senza biglietto, viaggio nella carrozza 048
Andrea Rustichelli racconta il suo viaggio imprevisto dentro la malattia oncologica. Nel suo libro dà voce alle storie dei pazienti, esplorandone paure e speranze
di Paola Scaccabarozzi
«Volevo andare in Ucraina come giornalista di Esteri. Invece mi ritrovo in un reparto d’ospedale, ricoverato per dei pesanti cicli di chemioterapia».
Quello di Andrea Rustichelli è un viaggio imprevisto, un viaggio altro rispetto a quello programmato, così come spesso accade nella vita. È un reportage sulla malattia oncologica e su tutti i suoi annessi e connessi. L’ambientazione è quella di un reparto d’ospedale con le sue camere condivise, gli incontri, le domande, le storie dei singoli pazienti, le loro paure (moltissime) e le loro attese. È un itinerario che inizia nel bar dell’ospedale dove chi ci lavora conosce perfettamente i suoi clienti. I pazienti oncologici sono facilmente identificabili a una prima occhiata e lo sono persino ancora prima dell’inizio della chemioterapia. Hanno quell’aria da soldati che partono per un fronte indefinito e sul capo quella peluria uniforme che non è ancora alopecia.
Andrea racconta il reparto coi i suoi zombie provati dalle terapie e i suoi veterani, inclusi i “maratoneti del cancro” quelli che nella loro vita di tumori ne hanno avuti diversi. Un reparto di oncologia è anche quello in cui si odora una detestabilizzante “puzza di normalità” perché i visitatori parlano delle storie di là fuori, fatte di week end saltati e di automobili dal carrozziere. Sono argomenti di tutti i giorni, vissuti come piccoli drammi da chi li racconta e percepiti con profondo fastidio dal malato di cancro che ha stilato una graduatoria diversa dell’indispensabile. Nel reparto si respira quella sensazione di vita che affiora anche nelle situazioni più gravi e che sa un po’ di oasi in un deserto. Ci sono poi coloro che attendono. È un ossimoro, a pensarci: aspettano il veleno che uccide il male e che contemporaneamente salva la pelle. Sono gli “spiaggiati”, nel limbo dell’omocromo sballato, quello dello stop forzato al proseguimento delle cure.
«Mi sono trovato un paio di volte nella condizione di “spiaggiato”», scrive Andrea, «sei in ospedale e passi le giornate guardando il soffitto, in attesa di notizie. Ti hanno comunicato che i valori delle analisi non consentono di iniziare, bisogna aspettare. Quanto? Non si sa. L’annoso capitolo della comunicazione medico-paziente tocca qui un punto critico. Si rischia di andare fuori di testa».
È proprio in questi momenti che il tumore viene percepito come un fatto di testa perché avere a che fare con il cancro è una disciplina zen, un modo nuovo e difficilissimo di abitare e configurare il tempo. Attese, esami il cui esito non arriva, messaggi imprevisti con il problema ulteriore che spesso la comunicazione con il medico è frettolosa ed evasiva. Il paziente deve capire, ma soprattutto intuire e decodificare mentre si allungano i giorni in ospedale e la degenza diventa una malattia nella malattia. Intanto manca la comunicazione che non deve essere consolatoria, ma partecipata e che richiede comprensione. Se non c’è, è una lacuna gigantesca per il malato. Spesso ciò dipende dalla routine ospedaliera, dalla mole di lavoro dei medici e anche dalla “medicina difensiva”, quella che mette le mani avanti per questioni legali. Ma la mancata comunicazione non è un accessorio, affatto, e il malato lo sa bene.
Poi c’è l’incontro con un altro paziente, un Marco che è grave, moltissimo. Con lui magari si “festeggia” il Capodanno. È Marco con i dolori, spesso molto forti, sedati dalla morfina. E un Marco che mi prende le mani. C’è Mario che cerca di ricreare in ospedale il suo ambiente casalingo con il giornale e le fette biscottate. È colui che pare un maestro della resilienza, un ottimo compagno di stanza. Un reparto di oncologia è il luogo in cui ai malati arrivano messaggini sul cellulare da parte di gente che “non vuole disturbare”. Tradotto: sono quelli che non si vogliono presedere in carico il tuo dolore e non hanno nessuna intenzione di entrare in contatto con un vissuto così scandaloso, quello di un corpo adulto divorato dal dolore.
È il decalogo in tre punti , più o meno esplico, dei malati di cancro: 1) No autocommiserazione; 2) Non cadere nel vortice del pessimismo, sì alla speranza; 3) no alla nostalgia e al “non sarò più come prima”. E poi c’è il discorso del lavoro, il binomio lavoro-tumore.
«La verità», scrive Andrea, «è che oggi, in molti casi, ammalarsi è un tabù e così chi ha una diagnosi di tumore si nasconde, come un animale ferito e non più “performante” in un ambiente ostile e competitivo. La vita attiva è parte fondamentale della cura, questo è ampiamente riconosciuto. Ma si fa spesso molta retorica. Perché quando si tratta davvero, fuori dalla compassione e dai buoni sentimenti, di integrare la malattia e di evitare il limbo degli scartati, tutto è lasciato al fai-da-te, al buon cuore di colleghi e capi. Questo welfare informale, che non di rado per fortuna emerge, è troppo precario, troppo intermittente».
Il reportage sulla malattia oncologia è anche un’occasione per ripensare al racconto mediatico imperante che tende, talvolta, a sguazzare nelle retorica del guerriero, ossia proprio il contrario della “normalizzazione” del tumore. Il reparto è anche il suo corridoio, un lusso per i pochi che riescono a camminare perché sono in forza per farlo. Il corridoio è l’agorà dei malati, un luogo di fratellanza di organi impazziti, storie, sguardi, confronti, brutte notizie sussurrate e speranze. Il racconto del cancro passa anche attraverso il momento della verità per antonomasia, quello dell’esito della TAC e ogni paziente oncologico lo sa.
È il tempo della sua attesa perché il cancro è, prima di tutto, un fatto di attese. La narrazione del paziente oncologico è la sua sacca di sangue che ha il colore della bistecca fresca e che permette di procedere con le terapie. C’è poi un momento durissimo, è quello del separé nella stanza di chi non ce l’ha fatta e la successiva santificazione. Quante storie potrebbero raccontare i materassi… Ci sono gli oggetti della malattia come l’infusore attraverso il quale arriva nel corpo la chemioterapia, anzi, le chemioterapie perché sono tutte diverse tra loro. È una sorta di alberto chimico, un’inquietante istallazione artistica che il malato si porta in giro, quasi un cervello pensante che dosa i farmaci. E, durante la notte, nel silenzio, l’infusore ricorda un treno a vapore. C’è l’ultima chemio dell’ultimo ciclo di chemio prima delle dimissioni e la domanda che ogni paziente oncologico si pone: “Sarò davvero libero”?
A seguire il momento delle dimissioni dal reparto che non significa alcuna certezza, ma un letto e la doccia di casa. La lettera di dimissioni è più fogli di carta in cui il paziente viene evocato solo in terza persona perché buffamente si parla di lui a lui e la cosa fa un po’ impressione. È il racconto anche dei familiari che sono i protagonisti anonimi della malattia, senza diritto di parola.
«Ho spesso pensato», scrive Andrea, «che ci sia qualcosa di peggiore che essere malati: è assistere alla malattia progressiva di una persona che si ama. Partecipare impotenti al dolore, alla diminuzione di un compagno o una compagna, di una sorella o un fratello. Per non parlare di una figlia o un figlio». Sono vite stravolte, spese ad accudire, a portare cibo, a sperare e a consolare. Ma chi consola queste persone? Poi c’è il mondo fuori, quello del ritorno a casa con la lenta convalescenza, il ritorno alla vita “attiva”, gli esami e, nel caso dell’autore, il cosiddetto intervento di bonifica, quello utile a pulire da quello che resta del tumore.
E poi c’è… la Domanda: il che cosa s’impara dalla malattia? «”Cosa ho imparato da tutto questo”? Continuo a chiedermi», scrive Andrea, «Difficile rispondere. La prima volta, cinque anni fa, era più facile. Ma da recidivo le cose si complicano: la narrazione lineare, malattia-guarigione, viene meno e tutto diventa più incerto, più appannato. Guardo dal finestrino, osservo i conducenti delle altre auto. Una ragazza, l’aria spenta, parla al telefono tramite auricolare. Immagino le loro vite normali, con le preoccupazioni normali, quelle che non affondano nella vita e nella morte. Il tumore tornerà a prendermi, stavolta in una forma incontrastabile?».
Anche il di fuori dal reparto è un luogo da indagare e descrivere perché ha spesso un impatto ruvido, è il posto in cui viene confuso l’essenziale e un malato di cancro lo nota di più. Poi c’è la lettura della malattia con quel senso di colpa spesso ancora imperante che è solo diventato un po’ più laico, ma non ha modificato la sua essenza. Non è più il castigo di Dio, è una declinazione psicologica e psicosomatica del “non ti sei voluto abbastanza bene o non ce l’hai fatta perché non lo volevi davvero”. E allora Andrea scrive: «Cosa avremmo dovuto dire, per esempio, a uno come Marco, il mio compagno di stanza che a settembre stava bene e quattro mesi dopo, ai primi di gennaio, era dentro una bara? «Ti sei ammalato perché qualcosa era guasto nella tua vita e soprattutto non sei guarito perché, in fondo, non lo hai voluto davvero?».
Senza biglietto. Viaggio nella carrozza 048
di Andrea Rustichelli
Marlin Editore, 2024