Come far “fiorire” il cervello oltre la linea della giovinezza
I neuroni muoiono dai 30 anni in poi e non è chiaro se possono rinascere. Una neuroscienziata illustra i meccanismi della mente e quali sono le armi per contrastarne il declino
di Serena Zoli
«Emozioniamoci. Non perdiamo la voglia di meraviglia». È una neuroscienziata, di grande valore e lunga esperienza, a invitarci. Come cura per la mente. Lei lo fa, e pervade il libro su come mantenere sempre giovane il cervello di un entusiasmo contagioso che sposa i risultati di laboratorio con le variegate esperienze della vita, bilanciando rigore dei concetti e amabilità della scrittura.
È un libro per tutti, per il largo pubblico, questo La fioritura dei neuroni dedicato a Come far sbocciare la nostra intelligenza tutta la vita di Michela Matteoli che con lo stesso stile è riuscita a fare un bestseller del precedente Il talento del cervello parlando di temi francamente difficili.
«Il cervello siamo noi», esordisce, ma più avanti dirà che siamo ben più della somma di tutte le cellule nervose pur senza uscire dalla scienza e sfociare nella metafisica. Noi siamo sì quei neuroni che però dai 30 anni in poi cominciano a morire e che da quando il nostro organismo è completato non rinascono più. Così hanno stabilito le ricerche del premio Nobel 1906, lo spagnolo Santiago Ramòn y Cajal, lasciando un grande punto interrogativo e sgomento tra gli scienziati: eppure grandi artisti e studiosi hanno compiuto opere insigni a 80 anni e oltre. Sì, c’è la “fioritura delle sinapsi”, cioè dei legami tra cellule nervose, a compensare. Tuttavia…
Una speranza fu riaccesa nel 1965 da qualcuno che trovò neuroni nuovi nei roditori adulti. Seguirono altri segnali di una possibile neurogenesi oltre la giovinezza (ma altri provarono il contrario) e da allora è continuo un filone di studi alla ricerca di “nicchie” di neurogenesi nascoste nel nostro cervello adulto. Nessuna prova certa, finora, ma sostegni alla speranza sì. E Michela Matteoli, direttrice del programma di Neuroscienze dell’ospedale universitario milanese Humanitas e professoressa ordinaria di Farmacologia, rientra in questo filone. Con un entusiasmo, dicevamo, oltre la curiosità della studiosa, che le fa impiegare espressioni - muovendosi tra cellule staminali e sostanza bianca e neocorteccia - come “innaffiare il giardino del nostro cervello”, processo affascinante, sinapsi luminose, “i neuroni cantano in coro” quando non “conversano”.
Impariamo che imparando aumentiamo la materia grigia e anche quella bianca, che imparare nell’età della pensione vuol dire creare nuovi circuiti neurali specializzati, che se ci dedichiamo ad apprendere una nuova lingua si mettono in funzione – e “rinverdiscono” – ambedue gli emisferi. Se il numero dei neuroni (100 miliardi) decade con la dolce ala della nostra giovinezza ci sono contropesi in aiuto a mantenere il cervello vivo ed efficiente.
Non tutti sanno che, appunto apprendendo, provando varie esperienze della vita, frequentando gli altri, senza smettere mai, ci creiamo una “riserva cognitiva”, un vero “tesoretto contro le demenze” che può soccorrere in funzioni che il cervello starebbe perdendo, sostenendo in primis la memoria. Perché “il ricordo è il tessuto dell’identità”, ha detto Nelson Mandela e la neuroscienziata lo ricorda come un principio basilare.
Sorprende forse scoprire che la lettura lascia un segno nel cervello aumentando la materia grigia e la sostanza bianca e rappresenta un caso speciale nell’evoluzione umana. Perché la scrittura ha “soltanto” cinquemila anni, troppo pochi per riuscire a incidere nel nostro Dna, così non esiste un’area cerebrale deputata alla lettura. La nostra mente si è, diciamo, ingegnata usando la zona specifica per il riconoscimento delle facce. Le lettere interpretate come i lineamenti di un volto.
Alla fin fine, come siamo? Riusciremo a sconfiggere le guerre? La domanda rincorre sempre i discorsi sul cervello e i suoi adattamenti nel tempo. Siamo nati noble savages, nobili selvaggi, come nel pensiero di Jean-Jacques Rousseau oppure homo homini lupus, uomini lupi per gli altri uomini, come teorizzò Thomas Hobbes? Ci sono studiosi che ritengono di avere trovato l’altruismo come una tendenza inscritta nelle cellule cerebrali, parte del Dna umano.
Su un fronte non lontano sono stati individuati tra gli anni ’80 e ’90 dall’italiano Giacomo Rizzolatti i neuroni-specchio, che sarebbero portatori di empatia con i nostri simili. Nel senso di cellule che riproducono l’azione che osserviamo in un’altra persona come se la stessimo facendo anche noi. E non solo le azioni noi rispecchiamo dentro di noi, ma anche le emozioni dell’altro. «C’è un legame intimo, naturale e profondo fra gli esseri umani», conclude Rizzolatti. E non a caso Michela Matteoli mette questa scoperta a conclusione del suo libro.
La fioritura dei neuroni - Come far sbocciare la nostra intelligenza per tutta la vita
di Michela Matteoli
Editore Sonzogno (Scienze per la vita)
Pagine 154, euro 17