Altruismo, beneficenza e onestà
È giusto promuovere iniziative benefiche da cui si trae anche un vantaggio personale? Oppure, la vera beneficenza è solo quella che si fa in segreto?
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un dibattito pubblico molto acceso sulla natura della beneficenza e su ciò che si dovrebbe fare quando “si fa del bene”. È giusto promuovere iniziative benefiche da cui si trae anche un vantaggio personale? Oppure, come sostengono alcuni, la vera beneficenza è solo quella che si fa in segreto, senza dirlo a nessuno?
A prescindere dalle polemiche recenti, queste domande sono interessanti e negli ultimi anni sono tornate al centro della riflessione anche in filosofia morale e bioetica, specialmente all’estero dove si discute molto di più di questi temi grazie alla diffusione del movimento dell’“altruismo efficace”.
Per fare chiarezza, quando si parla di beneficenza — o, più in generale, di altruismo – è utile cominciare distinguendo tra le “intenzioni” che ci spingono ad agire e gli “effetti” che le nostre azioni hanno sul mondo. Per quanto riguarda le intenzioni — e cioè i “motivi”, le “ragioni” o i “fini” delle nostre azioni–, una persona può agire da egoista o da altruista. Si agisce da “egoisti” se il fine primario dell’azione è fare del bene a noi stessi. Si agisce da “altruisti” se, invece, il fine primario è fare del bene agli altri. La cosa importante è che la stessa azione — ad esempio, dare dei soldi in beneficenza — può essere compiuta sia per egoismo (ad esempio, per farsi belli in pubblico) che per altruismo (per aiutare davvero chi ha bisogno).
Ora, indipendente dalla motivazione, le nostre azioni hanno sempre degli effetti sul mondo, e cioè delle conseguenze. Questi effetti possono essere positivi (benefici) o negativi (danni), sia per chi la compie un’azione (chi dona i soldi), sia per chi la subisce (chi riceve i soldi). Nel libro “La felicità è un dono. Perché l’altruismo intelligente è la scelta migliore che puoi fare” ho provato a illustrare questo punto utilizzando lo schema proposta da Carlo M. Cipolla nel suo gustosissimo e ironico saggio “Le leggi fondamentali della stupidità umana” — oggi ripubblicato in un volumetto intitolato “Allegro ma non troppo”.
Secondo Cipolla, esistono quattro categorie fondamentali di azioni a seconda dei loro effetti su di sé e sugli altri:
- le azioni che risultano in un beneficio per sé e per gli altri sono da “intelligenti”;
- le azioni che risultano in un danno per sé e in un beneficio per gli altri sono da “sprovveduti”;
- le azioni che risultano in un beneficio per sé e in un danno per gli altri sono da “banditi”;
- le azioni che risultano in un danno per sé e per gli altri sono da “stupidi”.
La cosa interessante è che anche un’azione tipicamente altruista come “donare dei soldi in beneficenza” può essere “intelligente”, e cioè risultare in un beneficio non solo per gli altri, ma anche per sé. Che “fare del bene fa bene” non è certo una novità. Già Seneca osservava che “chi aiuta gli altri aiuta sé stesso” e, nel corso della storia, l’idea per cui “chi dona spesso riceve più di quanto ha dato” ritorna in pressoché tutte le epoche, culture e religioni. Non c’è dunque niente di male o di sospetto nel fatto che anche le azioni altruiste possono a volte beneficiare pure chi le compie. Anzi, succede molto più spesso di quanto crediamo.
Questo fatto è oggi confermato da molti studi scientifici che dimostrano che donare agli altri (tempo, soldi, etc.) rende le persone più felici, meno stressate e aiuta loro a dare un senso più profondo alla propria vita. Proviamo ora a mettere insieme le due cose, intenzioni ed effetti. Immaginiamo una persona che dona dei soldi e supponiamo che questa donazione risulti in un beneficio per tutti: è, seguendo lo schema di Cipolla, un’azione “intelligente”. Fin qui tutto bene. In base a quanto detto prima, se chi ha donato lo ha fatto primariamente per aiutare gli altri, allora sarà un “altruista intelligente”; se, invece, lo ha fatto primariamente per sé, allora sarà un “egoista intelligente”. Ma a parità di effetti, quali delle due opzioni è preferibile dal punto di vista morale?
Sulla risposta a questa domanda esistono opinioni diverse. C’è chi pensa che, dal punto di vista morale, la scelta più ammirevole sia sempre quella altruista. Se poi questa scelta porta anche dei benefici per sé anche meglio, ma non è questo lo scopo primario dell’altruismo. Altri pensano invece che questa prospettiva sia un po’ riduttiva e forse troppo ingenua. Alla fine, che male c’è ad avere prima di tutto a cuore il proprio interesse e poi quello degli altri? Se le conseguenze sono positive per tutti, le intenzioni che hanno motivato le nostre azioni contano poco. In generale, chi valuta le azioni più dal punto di vista delle intenzioni tende a sostenere posizioni più vicine all’“altruismo disinteressato”, mentre chi valuta le azioni più dal punto di vista delle conseguenze tende spesso a sostenere una posizione più vicina a quello di un “egoismo illuminato”.
Esiste poi una terza possibilità, la quale consiste nel tenere presente sia le intenzioni sia le conseguenze delle azioni altruiste. Secondo questa posizione, per quanto riguarda le intenzioni, non c’è niente di irrazionale nell’essere egoisti invece che altruisti quando si compiono azioni benefiche. A parte alcuni scenari-limite, infatti, fare del bene agli altri non è un dovere morale, ma un ideale morale, e cioè qualcosa che di solito consideriamo bello ed ammirevole, ma non doveroso o eticamente obbligatorio. Ciò detto, è innegabile che tendiamo a preferire chi si comporta da altruista rispetto a chi si comporta da mero egoista.
Per quanto riguarda le conseguenze, invece, bisogna distinguere alcuni scenari, ma il principio fondamentale è che, a parità di condizioni e benefici, non ha senso scegliere di essere sprovveduti invece che intelligenti quando si fa del bene. Ecco perché, secondo questa visione, tra gli otto tipi di azioni benefiche possibili, l’altruismo intelligente “è la migliore che possiamo fare”. Al netto di queste differenze, c’è però un punto sul quale, dal punto di vista morale, esiste un accordo unanime e sostanziale. E cioè che sia eticamente sbagliato essere disonesti.
Si è disonesti quando si mente riguardo alle proprie intenzioni per ingannare gli altri e ottenere così un vantaggio per sé. Ad esempio, una persona che dice di raccogliere soldi per una causa benefica e poi li tiene per sé è disonesta, perché dice di voler fare del bene agli altri quando invece vuole solo fare del bene a sé stessa. Ma si può essere disonesti anche quando, alla fine, le proprie azioni risultano “intelligenti”, e cioè quando risultano comunque in un beneficio per gli altri. Se io dico di voler raccogliere dei soldi “per donarli tutti a qualcuno”, ma poi ne tengo per me la maggior parte, ho agito in modo chiaramente disonesto, anche se alla fine ho comunque fatto del bene.
Diverso sarebbe, invece, se dicessi: “Sto raccogliendo soldi per la causa X. Di questi soldi, il 90% lo terrò per me”. Così facendo potrei essere accusato di non essere bravo a raccogliere fondi, ma certo non di essere disonesto. Dato che chi è percepito come “altruista” può avere dei vantaggi a livello sociale (maggiore ammirazione, più opportunità e un migliore posizionamento sociale, etc.), ecco che per ogni azione che si professa tale può sempre esserci il legittimo sospetto che, in realtà, chi si presenta come altruista sia in realtà un “egoista travestito”, e perciò disonesto. Il problema, però, è che le intenzioni sono stati mentali soggettivi, e per questo spesso non sappiamo se una persona sia mossa da fini davvero “altruisti” o “egoisti”. Dobbiamo fidarci, ma questo ci espone a un rischio. È questa la ragione per cui molti credono che “la beneficenza bisogna farla ma solo in segreto”.
Se, infatti, si separa l’atto benefico dai benefici sociali che derivano dall’essere percepiti come altruisti agli occhi degli altri, allora si ha una sorta di “garanzia” che chi agisce per beneficiare qualcuno lo stia facendo davvero con un’intenzione sinceramente altruista. Questa posizione è comprensibile ma semplicistica. Primo, perché oltre i vantaggi sociali ci sono altri tipi di vantaggi o benefici associati all’essere altruisti, per cui anche fare beneficenza senza dirlo non è affatto una garanzia del fatto che una persona non sia, in fondo, egoista. Secondo, perché diversi studi dimostrano che siamo profondamente influenzati da quello che fanno le persone attorno a noi. Se in molti donano in beneficenza, o il sangue, anche gli altri tenderemo a fare lo stesso. C’è quindi un effetto benefico ulteriore nel rendere pubblico il fatto di aver donato o di voler donare — di nuovo, indipendentemente dal fatto di farlo per motivi egoistici o altruistici. Terzo, perché è perfettamente possibile essere degli “altruisti intelligenti”, e cioè agire primariamente per il bene degli altri e, allo stesso tempo, ricevere per questo dei benefici senza essere per forza disonesti.
In definitiva, quando si parla di beneficenza, le cose davvero importanti da tenere presenti sono sempre due. La prima è che le nostre intenzioni, per quanto possano essere giuste, non sono mai sufficienti. Si può essere sinceramente mossi da motivi altruisti, eppure agire in modo tale da provocare un danno a sé stessi e agli altri — e cioè da “stupidi”. Per essere altruisti (o egoisti) “intelligenti” — che, a parità di altre condizioni, è meglio di essere “sprovveduti” — bisogna prestare attenzione anche alle conseguenze delle proprie azioni, e cioè preoccuparsi che esse risultino in un qualche beneficio per gli altri. Meglio ancora se, di nuovo a parità di condizioni, il beneficio è poi il massimo beneficio che possiamo fare in quelle condizioni e per quella causa, e cioè se il nostro altruismo è anche il più “efficace” possibile.
Secondo, il peccato più grande che si può commettere rispetto alla beneficenza è passare per disonesti: aver detto di voler aiutare gli altri per altruismo ed essere poi scoperti a essere interessati solo, o principalmente, al proprio bene. Questo vale anche nel caso in cui, alla fine, le nostre azioni hanno comunque portato un beneficio anche agli altri. Dal punto di vista della teoria morale non è di per sé irrazionale preferire l’egoismo all’altruismo “intelligente”; basta però che, quando si agisce, questa distinzione sia chiara non solo a sé stessi, ma anche agli altri. Specialmente nell’era di Internet e dei social media.