La speranza come responsabilità comune
I gesti che ognuno di noi può compiere per superare al più presto l'emergenza Coronavirus
Negli ultimi giorni, abbiamo tutti imparato quanto la salute nostra dipenda dai comportamenti degli altri (come già scritto da Daniele Banfi) e viceversa. Solo rimanendo in casa e aumentando senza eccezioni il distanziamento sociale, come ricorda ormai quotidianamente l’Istituto Superiore di Sanità, possiamo sperare di rallentare e poi fermare il contagio del Coronavirus nelle prossime settimane. E allentare, così, la pressione sul sistema sanitario per permettere a tutti di pensare alla prossima fase di un’emergenza che non sarà breve. Inutile nasconderselo.
Accanto alla responsabilità che abbiamo verso la salute nostra e altrui, però, non dobbiamo dimenticare che tutti abbiamo una responsabilità anche verso la speranza di superare questa crisi. Perché le crisi si superano prima e meglio solo se si crede che sia possibile farlo e si dedicano tutti e risorse necessarie affinché ciò possa avvenire nel minor tempo possibile. Cosa possiamo fare, già oggi e concretamente, per alimentare una ragionevole speranza che, alla fine, «andrà tutto bene»? Tre suggerimenti.
Il primo è sempre di comportarsi come vorremmo che gli altri si comportino nei nostri confronti, e cioè in modo esemplare (ne ho scritto qui). Il secondo è di donare il sangue. In questi giorni di spostamenti limitati le donazioni sono molto altalenanti, ma vi è un bisogno costante. Anche se non lo avete mai fatto, provate ad informarvi. Il terzo consiglio è di valutare di donare dei soldi alla ricerca scientifica sul virus (o altro) o ad altre iniziative impegnate nel fronteggiare l’emergenza. Perché non ha molto senso avere moltissimi soldi in banca ma nessun letto in terapia intensiva. Fondazione Umberto Veronesi, per esempio, ha appena siglato un impegno per donare un milione di mascherine ai medici lombardi in prima linea.
Mai come prima di ora è una buona idea donare subito e di più. Perché le bandiere esposte sui balconi e i «flash mob» fanno certo bene allo spirito, ma non cambiano davvero la situazione sul campo. Se vogliamo davvero costruire delle speranze concrete dobbiamo agire, aiutando chi presta assistenza in prima linea, chi ha bisogno di sangue e chi fa ricerca per trovare nuove cure.