La malattia di Parkinson: alla scoperta del cervello
James Parkinson la imputava all'inquinamento della Rivoluzione industriale. Cent'anni dopo si trovarono le cause cerebrali
La Giornata Mondiale della malattia di Parkinson, istituita nel 1997 dall'European Parkinson's Disease Association (EPDA), è l’occasione per raccontare la storia di una patologia neurodegenerativa estremamente diffusa, la seconda dopo la malattia di Alzheimer.
I NUMERI
La malattia di Parkinson colpisce circa il 3 per mille della popolazione generale, e circa l’1 per cento di quella sopra i 65 anni. In Italia i malati di Parkinson sono circa 300.000, per lo più maschi (1,5 volte in più), con età d’esordio compresa fra i 59 e i 62 anni. La data scelta, l’11 aprile, non è affatto casuale perché corrisponde al giorno di nascita del medico inglese James Parkinson che, nel 1817, per primo la descrisse in maniera piuttosto precisa.
JAMES PARKINSON
«A lui si deve infatti - spiega Federica Agosta, professoressa associata di Neurologia presso l’Università Vita Salute San Raffaele - lo studio attento di quella che definì “paralisi agitante” (shaking palsy), ossia una sorta di paralisi accompagnata da tremori. In realtà, più che di paralisi in senso stretto, la malattia di Parkinson che da lui ha preso il nome, è una riduzione della velocità e dell’ampiezza dei movimenti». Numerose furono le malattie studiate da questo medico inglese, figlio a suo volta di un dottore da cui ereditò lo studio in Hoxton Square, a Londra (nella foto, Wellcome Images, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons). Tra queste, alcune malattie mentali, la gotta e l’appendicite, di cui descrisse la peritonite come causa di morte. Ma ciò che lo rese famoso fu proprio il Parkinson che si sarebbe chiamato morbo di Old Hubert se James Parkinson avesse firmato gli articoli scientifici con il suo pseudonimo da attivista politico. James Parkinson (1755-1824) era stato, infatti, un indomito critico del governo inglese e un fervente sostenitore dei diritti del popolo. Era una specie di eroe rivoluzionario, medico e con interessi vari in ambito scientifico, a cominciare dalla geologia. Ciò che il medico londinese aveva descritto della malattia era frutto dell’osservazione empirica di un esiguo numero di pazienti, accomunati dal tremore degli arti, tipico della malattia.
UNA STORIA CHE PROSEGUE NEL CORSO DELL’OTTOCENTO
Gli studi di Parkinson rimasero però sconosciuti per parecchi anni. Solo verso la fine dell’Ottocento il medico francese Jean Martin Charcot (Parigi, 29 novembre 1825 – Montsauche-les-Settons, 16 agosto 1893) si riferì alla patologia descritta dal collega come a la maladie de Parkinson, aggiungendo tra i sintomi caratteristici anche la rigidità muscolare. «A James Parkinson - prosegue Agosta - dobbiamo l’illuminante, ma non totalmente corretta convinzione, circa la patogenesi della malattia legata al fenomeno dell’inquinamento in aumento esponenziale durante la Rivoluzione industriale. Interessante perché metteva in evidenza una concausa».
«Sappiamo infatti -spiega ancora Federica Agosta - che l’esposizione a pesticidi e metalli pesanti può aumentare il rischio di andare incontro alla malattia; ma questa non costituisce ovviamente l’unica causa e neppure la principale. Risale alla fine dell’Ottocento la prima descrizione della perdita di colore di una zona del cervello strettamente coinvolta nella malattia. Quest’area cerebrale, ricca di cellule nervose che utilizzano come neurotrasmettitore la dopamina, si chiama susbstantia nigra. All’inizio degli anni Settanta del Novecento gli scienziati riuscirono a ricondurre la malattia proprio a un deficit nella produzione di dopamina».
LEWY E LA SCOPERTA DEL RUOLO DELL'ALFA-SINUCLEINA
«La malattia di Parkinson - spiega Agosta - è associata alla morte dei neuroni dopaminergici localizzati nella sostanza nigra, che è appunto meno scura nei malati rispetto a quella delle persone “sane”. Il Parkinson è caratterizzato dalla presenza nel citoplasma di alcuni neuroni di piccole formazioni che assomigliano a gomitoli, denominate corpi di Lewy. I corpi di Lewy sono agglomerati di una proteina, l’alfa-sinucleina. La scoperta è del 1912 e la si deve a al neurologo tedesco Friedrich H. Lewy, nato nel 1855 a Berlino. Analizzando la struttura cerebrale di pazienti deceduti affetti dal morbo di Parkinson, Lewy trovò alcuni depositi proteici in grado di impedire lo scambio dei neurotrasmettitori neuronali, danneggiando così le cellule nervose».
ARRIVA UNA CURA: LA LEVODOPA
«La scoperta che ha rivoluzionato l’approccio alla malattia - prosegue Agosta - la si deve a uno dei maggiori scienziati del secolo scorso, lo svedese Arvid Carlsson che negli anni Settanta ebbe un’importate intuizione: quella di somministrare levodopa per sopperire alla mancanza di dopamina. La sperimentazione sui roditori con sintomi di Parkinson diede risultati sorprendenti. Il ricercatore svedese gettò così le basi per quella che divenne la più importante cura della malattia di Parkinson, scoperta che gli valse il premio Nobel nel 2000. Tutt’oggi la terapia sintomatica del Parkinson si basa principalmente sulla somministrazione di levodopa. In alcuni casi selezionati, a causa di effetti collaterali significativi (come i movimenti involontari), si può ricorrere alla deep brain stimulation (stimolazione cerebrale profonda). Il trattamento consiste nell'impianto chirurgico di elettrocateteri nelle aree del cervello deputate al controllo dei movimenti e, inoltre, di un dispositivo medico, simile a un pacemaker cardiaco, vicino alla clavicola o nella regione addominale».