Pre-diabete: un campanello d’allarme da non ignorare
La condizione non dà la certezza di andare incontro alla malattia, ma richiede un intervento deciso per evitare che la situazione si comprometta. Dieta e stile di vita sono le prime leve su cui occorre agire
Da tempo si parla di quella che comunemente viene definita l’“epidemia” del diabete. A generare questa definizione sono soprattutto i numeri: 380 milioni di persone con diabete nel mondo con una previsione di sfiorare i 600 milioni nell’arco dei prossimi 15 anni.
Questi dati allarmano e allarmano ancora di più quando si considerano le persone che presentano valori di glicemia non ancora indicativi di una condizione patologica già esistente, ma neppure normali: oggi sarebbero oltre 300 milioni, ma potrebbero divenire quasi il doppio nel 2035. Da alcuni anni è invalsa la consuetudine di definire questi soggetti come pre-diabetici, ovvero a maggior rischio di sviluppare la malattia, e dunque meritevoli di particolari forme di intervento (modificazioni dello stile di vita se non un trattamento farmacologico vero e proprio). Ovviamente parliamo del diabete tipo 2, visto che il diabete tipo 1 ha tutt’altra patogenesi.
La definizione di pre-diabete è da sempre oggetto di discussione, ripresa in un recente articolo pubblicato sul British Medical Journal da Yudkin e Montori, nel quale gli autori sostengono che per prevenire - o ritardare in modo considerevole - il diabete di tipo 2 non è necessario etichettare qualche centinaio di milioni di persone nel mondo come a rischio di diabete, ma investire per cambiare le condizioni generali nelle quali viviamo e che favoriscono l’insorgenza di diabete come di aterosclerosi o cancro. E ha - il pre-diabete - dei limiti, poiché soltanto la metà di chi lo accusa sviluppa il diabete di tipo 2 nell’arco di dieci anni. Questo comporta un effetto di diluizione della capacità di aderire a trattamenti preventivi, come è stato ben illustrato dalla recente indagine eseguita da Eurisco per conto della Società Italiana di Diabetologia. Il documento dimostra che gli italiani con “prediabete” sono poco propensi a mettere in atto, oggi, qualcosa che forse li proteggerà da una patologia che potrebbe - il condizionale è d’obbligo - svilupparsi dopo dieci anni.
Dubbi esistono anche sull’efficacia del cambiamento dello stile di vita che, una volta instaurato, deve essere mantenuto e ancor più sul rapporto rischio: beneficio dell’eventuale ricorso a farmaci che sono gli stessi che vengono impiegati nei diabetici. Infine non dovremmo neppure sottostimare le implicazioni (anche psicologiche) di porre un’etichetta di malattia a una condizione che malattia ancora non è e tantomeno sottovalutare il costo di un’azione diretta a identificare, trattare e monitorare un così vasto numero di persone. Allora che fare? Rinunciare alla battaglia? Ovviamente no. Al contrario dovremmo impegnarci a cambiare il nostro atteggiamento nei confronti della conservazione dello stato di salute agendo sulla stessa struttura della nostra società per renderla meno morbigena. Tutti sappiamo come l’attività fisica sia importante ma come possiamo pensare di fare camminare i nostri figli in strade affollate e inquinate? E quali le conseguenze di cibi manipolati per chi è a rischio di sviluppare diabete ma anche per le persone non necessariamente a rischio? Un cambiamento della società richiede una pressione da parte di una cittadinanza preoccupata di garantirsi lo stato di salute, in altre parole una cittadinanza informata, educata e consapevole. E anche i nostri governi potrebbero (dovrebbero) intervenire. Si tassano consumi dannosi come fumo e alcool. Perché non tassare anche alimenti potenzialmente rischiosi perché ipercalorici o perché non necessariamente genuini? O meglio, dato che di tasse ne abbiamo anche fin troppe, perché non detassare i cibi salubri?