Perché i morti a causa dell’alcol non fanno notizia?
Ogni anno in Italia 18.000 persone muoiono a causa dell'alcol
Ogni anno in Italia diciottomila persone muoiono a causa dell'alcol. Non è l’uomo che morde il cane ma… da un punto di vista dell’impatto sapere che in dieci anni, in media, 180.000 persone siano decedute per le abitudini alcoliche a me fa ancora effetto. E anche ai ragazzi nelle scuole, per fortuna. Abbiamo fatto una riflessione: è come se ogni anno (non se ne abbiano gli abitanti è un esercizio didattico casuale) si dissolvessero in sequenza Comuni come Gaeta, Agropoli, Acquaviva della Fonti, Gallipoli, Bressanone, Orvieto , Vico Equense, Adria, Trezzano sul Naviglio, Tolentino. Altra considerazione: c’è una sensibilità-insensibilità estremamente variabile nell’opinione pubblica. Ad esempio, furono 2.752 le vittime nell’attacco terrorista delle torri gemelle a New York, 309 quelle del recente terremoto dell’Aquila, 2998 in Irpinia; devastanti eventi che conducono a tristi memorie che tutti possono ricordare per la loro drammaticità ma che insieme non contabilizzano che un terzo delle vittime che in un anno fa l’alcol. Perché, allora, i morti a causa dell’alcol non fanno effetto? Perché, mi scrivono alcuni ragazzi di liceo, non si trovano tracce e coerenti riflessioni nei media rispetto a tutto ciò? Singolare rileggere in alcune (poche) righe riportate sul web rassicuranti elementi informativi relativi al calo dei consumi che ci profilano come nazione virtuosa rispetto alle altre nazioni europee; tutte informazioni di dettaglio focalizzanti quasi esclusivamente sugli indicatori rassicuranti, in diminuzione, su una debole tendenza senza, tuttavia, soffermarsi sul valore del dato finale che rassicurante non è.
Dalla Relazione annuale sull’alcol trasmessa dal Ministro della Salute al Parlamento, si evince che Istat e Osservatorio Nazionale Alcol CNESPS dell’istituto Superiore di Sanità sono concordi nel rilevare che sono quasi 4 milioni gli italiani e le italiane che si ubriacano ogni anno, con un picco intorno ai 18-24 anni; ma ci si ubriaca anche prima, come testimoniato dalle prevalenze rilevate anche nelle età comprese tra gli 11 e i 17 anni. E' di preoccupante rilievo che non si tratti di “semplici” consumatori ma di persone che bevono sino all'intossicazione prevalentemente nei luoghi di aggregazione giovanile come dimostrato dalle indagini europee ESPAD.
Particolarmente preoccupante la situazione tra le minorenni; sono consumatrici a rischio l'8.4 % delle 11-17enni, sotto l'età minima legale, una quota che è superiore alle prevalenze delle donne adulte 25-44enni e 45-64enni. Oltre 400.000 giovani di entrambi i sessi di età inferiore ai 18 anni, che non dovrebbero consumare alcol, dovrebbero essere oggetto, insieme ai circa 8 milioni di italiani e italiane che consumano alcolici secondo modalità a rischio, di intercettazione e di intervento da parte di medici o strutture sanitarie al fine di evitare che un abitudine non salutare possa progredire verso il danno e l’alcoldipendenza.
Gli anziani rappresentano la popolazione con il maggior numero di consumatori a rischio con quasi la metà degli ultra65enni maschi a rischio, circa 2.100.000 individui che insieme al 20 % circa di ultra65enni femmine richiederebbero una sensibilizzazione e rimodulazione dei consumi. Numerosità destinate, peraltro, a incrementarsi notevolmente quando l’indicatore del rischio da utilizzare per il monitoraggio riformulerà la definizione del consumo “moderato”, abbassando i limiti e forse restituendo nelle analisi un quadro sempre più aderente alle realtà sociali ed epidemiologiche odierne. Gli alcoldipendenti sono in aumento, a quota 69.000, con nuovi utenti sempre più giovani, l’1 % con un età inferiore ai 19 anni, un terzo sotto i 30 anni ed un incremento della spesa farmacologica che vale 7 milioni di euro l’anno.
Il commento del Ministro alla Salute nella prefazione della Relazione annuale al Parlamento è comunque chiaro e in linea con l’esigenza di tracciare una road map delle azioni urgenti ed indispensabili per l’Italia. “Le criticità emergenti nel nostro Paese riguardano dunque, soprattutto, specifiche fasce di popolazione, giovani, anziani e donne, cui vanno pertanto rivolti adeguati interventi di prevenzione in grado di adattarsi ai diversi contesti culturali e sociali, tenendo conto delle evidenze emerse dall’attuale ricerca scientifica ed epidemiologica. Il consumo alcolico dei giovani deve essere monitorato con particolare attenzione in quanto può comportare non solo conseguenze patologiche molto gravi quali l’intossicazione acuta alcolica e l’alcoldipendenza, ma anche problemi sul piano psicologico e sociale, influenzando negativamente lo sviluppo cognitivo ed emotivo, peggiorando le performances scolastiche, favorendo aggressività e violenza. Per prevenire tali conseguenze è necessario rafforzare nei giovani la capacità di fronteggiare le pressioni sociali al bere operando in contesti significativi quali la scuola, i luoghi del divertimento, della socializzazione e dello sport.
Inoltre per i giovani che manifestano comportamenti di grave abuso è necessario prevedere efficaci azioni di intercettazione precoce e di counseling per la motivazione al cambiamento, con eventuale avvio ad appropriati interventi di sostegno per il mantenimento della sobrietà. Per la protezione dei giovani appare importante anche la collaborazione dei settori della distribuzione e vendita di bevande alcoliche, che devono essere opportunamente sensibilizzati sulla particolare responsabilità del proprio ruolo anche ai fini di una corretta applicazione del divieto di somministrazione e vendita di bevande alcoliche ai minori di 18 anni, recentemente introdotto con la legge 8.11.2012 n. 189. I cambiamenti in atto nel consumo alcolico femminile esigono un maggiore impegno nell’implementazione di adeguati interventi di genere, finalizzati ad aiutare le donne, soprattutto quelle più giovani, a resistere alle specifiche pressioni al bere loro rivolte e a contrastare le tendenze alla omologazione con i maschi nella assunzione di comportamenti a rischio”.
Un’analisi lucida e oggettiva che condivido e rilancio alla luce delle più recenti tendenze che nelle statistiche non entrano come quelle relative a neknomination, catene alcoliche, pub’s crawl e che coinvolgono esponenzialmente platee di giovani consumatori che moltiplicano il numero di esposti al rischio, difficilmente identificabili attraverso indagini statistiche che, per prassi, si svolgono all’interno del nucleo familiare, contesto spesso poco idoneo a “confessioni” adolescenziali. Dall’altra parte della curva di popolazione gli anziani sono abbandonati a una cultura antica, priva degli elementi di conoscenza che imporrebbe di ridurre al minimo i consumi alcolici in funzione dei noti rischi non adeguatamente percepiti e sicuramente da evitare in funzione dell’età, del genere, delle terapie farmacologiche in atto e delle patologie più frequenti che sconsigliano di consumare alcolici. I medici dovrebbero fare di più, formarsi e informarsi sui metodi e sugli strumenti d’identificazione precoce e intervento motivazionale da integrare nelle attività quotidiane. Formazione che dovrebbe cominciare sin dagli studi universitari, con l’inserimento curriculare dell’alcologia come richiamato nella Legge 125 del 2001 mai implementata da alcuna università. L’Italia è la Nazione europea che secondo i progetti europei AMPHORA e ODHIN ha i più bassi livelli di formazione specifica tra gli operatori sanitari (solo un terzo di quelli attivi) e i più bassi livelli di conoscenza di applicazione delle metodiche di intervento motivazionale.
Azioni incisive che contribuirebbero a contrastare ciò che per sua natura è evitabile in un regime di reale prevenzione, norme e controlli che richiede la massima priorità al fine di ridurre i costi dell'alcol in Italia stimati in 22 miliardi l'anno dall'OMS e consentire una prevenzione che non è quella isolatamente riferibile ad azioni di Salute Pubblica già in atto da decenni, bensì quella più capillare e radicale dell’alcol nelle altre politiche. Sia l’OMS ma anche importanti comitati tecnici ed economici, tra cui quello delle Nazioni Unite, hanno sottolineato ai Governi di tutto il mondo che il maggior ed immediato vantaggio nel contrasto al rischio alcolcorrelato nella popolazione è legato ai “best buys”, i migliori “acquisti”, rappresentati da un adeguata tassazione degli alcolici, secondo alcuni parallelamente progressiva rispetto alla gradazione, e dalla riduzione della disponibilità sia fisica che economica, rendendo meno agevole la reperibilità ubiquitaria degli alcolici e la loro convenienza oggi resa emblematica dalla promozione, ad esempio, delle happy hours. Infine e non ultimo, tra i migliori “acquisti” rientra l’adozione e applicazione di una stretta e rigorosa regolamentazione della pubblicità , del marketing e delle modalità di commercializzazione, in particolare quelle rivolte impropriamente ai minori, argomento su cui si era espressa molti anni fa anche la Consulta Nazionale Alcol , organismo prevista dalla Legge 125/2001 e immotivatamente abolita come organismo di consulenza alle autorità competenti nell’agosto di due anni fa.
Sono valutazioni derivanti dalle evidenze scientifiche che la ricerca italiana, pur in assenza d’investimenti correnti, produce con tenacia e orgoglio al fine di supportare la costruzione di capacità e di monitoraggio epidemiologico che sono fondamentali per assicurare un cambio determinato di rotta, idoneo a valorizzare le persone come risorsa per il contrasto al rischio e al danno alcolcorrelato e quindi supportare il capitale umano di cui c’è necessità per costruire contesti e prospettive non minacciate da interpretazioni del bere e da disvalori relativi al consumo di alcol che con la salute e la sicurezza hanno poco o nulla a che vedere. Ridurre le conseguenze negative del bere è un cardine delle politiche di prevenzione tanto universale, quanto specifica che l’Italia, l’Europa e il mondo possono e hanno il dovere di affrontare come vera sfida etica e di sostenibilità per le generazioni future e l’intera società.