Tumore al seno, ricerca e NYCMarathon: un traguardo da tagliare insieme
La storia delle maratonete di NOTHINGstopsPINK a New York è anche la storia della ricerca contro il cancro attraverso i secoli
Marina, Nicoletta, Gabriella, Monica, Angela, Elena, Manuela, Jole, Natalina, Giuseppina, Georgiana, Grazia, Laura, Patrizia, Daniela e Emy: sono le maratonete della prima edizione del progetto NOTHINGstopsPINK, ideato e realizzato da Fondazione Umberto Veronesi e Rosa & Associati. Il 2 novembre scorso hanno corso la maratona più importante del mondo per dimostrare che la vita ricomincia anche dopo una diagnosi di tumore al seno, che guarire si può e che lo sport rappresenta una forma di rinascita sia fisica- perché migliora la qualità della vita e riduce il rischio di ricadute- sia psicologica ed emotiva.
Ognuna di loro ha alle spalle una storia unica, un proprio personale vissuto con un denominatore comune: una diagnosi di tumore al seno. La storia di Marina, Monica, Angela, e di tutte le altre è quindi anche la storia di una malattia e della incessante lotta della medicina e della ricerca contro di essa; una storia antica, che attraversa i secoli e le vicende dell’umanità.
Inizia 2500 anni fa in Egitto, nella clinica del medico e sacerdote e Imothep, che in un geroglifico descrive una malattia che oggi riconosciamo come un cancro, concludendo con una frase che ha il sapore dell’impotenza: non esiste trattamento. Era la stessa malattia che i greci battezzarono karkinos, cioè granchio, per via della forma che prendeva la porzione di organismo colpita.
Nel 500 AC alla corte persiana, la regina Atossa è forse uno dei primi casi documentati di tumore al seno; si auto-prescrisse una primitiva mastectomia, fatta eseguire da uno schiavo, ma che con tutta probabilità nulla poté contro la sua malattia.
Claudio Galeno, nel II secolo dopo cristo, ipotizzò che il cancro fosse dovuto alla bile nera, un “fluido negativo” che in qualche modo intasava e faceva ammalare il corpo, che però nessuno riuscì mai a identificare. Per tutto il Medioevo, i medici barcollarono al buio cercando di attaccare il cancro con i metodi più disparati: sangue di rana, sterco di capra, lastre di piombo, pasta di granchio e persino acqua santa.
Solo alla fine del Diciottesimo secolo, John Hunter, un medico londinese, cominciò a capire che i tumori sono una malattia molto più complessa di quel che si pensasse. Innanzi tutto non sono sempre uguali; ne esistono di locali, che si possono asportare chirurgicamente, e di diffusi, per i quali l’unica cosa da fare è applicare una distaccata compassione. Il Dottor Hunter non ha fatto in questo molti passi avanti dai tempi di Imothep, quasi 4000 anni prima.
Il 1800 è il secolo dominato dalla chirurgia: il dogma medico, praticamente incontestabile, è quello di rimuovere l’intero organo colpito da un tumore, e spesso non solo quello. Alle donne malate di tumore al seno veniva praticata una mastectomia radicale, accoppiata quasi sempre a svuotamento di tutti i linfonodi ascellari e spesso rimozione dei muscoli del torace e della clavicola, lasciando le donne gravemente menomate.
Molte di quelle donne poi avevano recidive, dimostrando che il dogma della chirurgia massiccia in realtà non era così efficace nella cura della malattia, eppure ci volle oltre un secolo di dibattito scientifico e medico per cambiare l’approccio chirurgico. Solo dagli anni Cinquanta del Novecento si cominciarono a praticare le mastectomie locali e bisogna aspettare il 1981 per la dimostrazione scientifica definitiva, anche grazie agli studi del Professor Umberto Veronesi all’Istituto dei Tumori di Milano, che per tumori al seno localizzati la mastectomia locale (o quadrantectomia) ha la stessa efficacia terapeutica di quella radicale.
La ragione per questo lento percorso era che, fino a metà degli anni Settanta, non si aveva ancora la più pallida idea di cosa fosse realmente il tumore, di come si sviluppasse e quali fossero le sue caratteristiche biologiche. Nonostante le evidenze contrarie, l’unico approccio che sembrava logico per curare un tumore era rimuovere fisicamente più tessuto possibile.
All’inizio del ventesimo secolo, grazie agli studi dei coniugi Curie sui raggi X, la radioterapia fece il suo ingresso nella pratica clinica, e a partire dal secondo dopoguerra venne combinata con una strategia mai tentata prima: la lotta chimica, la chemioterapia.
Anche con la chemioterapia spesso, e soprattutto all’inizio, i fallimenti furono più grandi dei successi: perché i tumori, che inizialmente rispondevano bene alla chemioterapia, dopo un po’ di tempo si ripresentavano? Ancora una volta, il grosso problema era che si stava colpendo il nemico alla cieca, per tentativi ed errori. Il cancro, nella sua essenza biologica, cellulare e molecolare, era ancora un’entità sfuggente, qualcosa di non molto diverso dalla “bile nera” di Galeno. Se non conosci il tuo nemico, come si origina e come si evolve e muta in risposta agli stimoli esterni non saprai come sconfiggerlo davvero.
Qualcosa cominciò a muoversi negli anni Settanta, con l’avvento della biologia molecolare: si scoprì che alcuni tumori al seno erano positivi al recettore per l’estrogeno, e che colpire questo tumore con un anti-estrogeno, ad esempio il tamoxifene, ne riduceva la crescita.
Con la terapia ormonale quindi si cominciò a intuire che ogni tumore, anche dello stesso organo, ha caratteristiche molecolari ben precise e che possono essere sfruttare per colpirlo: stava nascendo la terapia mirata.
Gli anni Ottanta furono una decade fondamentale nella lotta contro il cancro: finalmente i ricercatori stavano decifrando la natura più intima dei tumori. Esso non era causato da un agente esterno o da un “fluido malefico” come la bile nera, ma da alterazioni anomale e fuori controllo di geni e proteine naturalmente presenti nelle cellule, anzi essenziali per la vita stessa.
Nel 1986 si scoprì che alcuni tumori al seno avevano un’alterazione genetica che determinava un alto numero di molecole di Her-2, una proteina che stimola le cellule alla moltiplicazione. Se in qualche modo si fosse riusciti a spegnere Her-2, si sarebbe arrestata la crescita del tumore? Nel 1991 Barbara Bradfield, con un tumore al seno già diffuso ai linfonodi e un primo ciclo fallimentare di chemioterapia alle spalle, entra a fare parte del primo trial clinico con l’Herceptin, un anticorpo monoclonale costruito per colpire specificamente Her-2. Barbara oggi è ancora viva e non mostra segni di ricaduta.
Attualmente, i tumori al seno vengono trattati con combinazioni di chirurgia, radioterapia e chemioterapia mirata a seconda delle caratteristiche isto-patologiche e molecolari. Un tumore al seno identificato in fase precoce ha oltre il 90% di probabilità di guarire. Se la regina Atossa fosse vissuta ai giorni nostri avrebbe guadagnato tra i 17 e 30 anni di vita.
Dopo un viaggio di 4500 anni, siamo quindi tornati nella New York del 2014 e alle maratone di NOTHINGstopsPINK: i 42 chilometri e il traguardo finale non hanno rappresentato solo la loro personale storia di successo, ma anche quello di secoli di ricerca scientifica contro il tumore. Niente ferma le donne, niente ferma la ricerca.
Chiara Segré
@ChiaraSegre