Qual è il rapporto tra scienziati italiani e cittadini?
Il «confronto» è complesso e non sempre facile. Ma ci sono ottimi esempi controcorrente, come la mostra DNA AND dei ricercatori del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano
Nel corso della mia carriera professionale, prima come ricercatrice e ore come comunicatrice scientifica, mi è capitato molte volte di sentire gli scienziati lamentarsi della scarsa considerazione che i cittadini, e l’opinione pubblica, hanno delle questioni scientifiche. Una delle lamentele più diffuse è che spesso la persone comuni esprimono giudizi e opinioni, anche molto radicali e pseudoscientifiche, senza conoscere correttamente i fatti scientifici. Posto che questa visione «da mancanza di informazione» (il cosidetto deficit model) non è sufficiente per spiegare la complessa relazione tra scienza e società, una domanda viene spontanea: la percezione che i ricercatori hanno di come la cittadinanza vede la scienza descrive davvero la realtà? E in questo putativo gap di informazioni, che ruolo hanno, o dovrebbero avere, gli scienziati stessi?
Secondo le analisi pubblicate dal rapporto annuale di Observa Science in Society 2016, per oltre sei italiani su dieci le figure più credibili quando si parla di scienza sono proprio coloro che la studiano e la fanno tutti i giorni: i ricercatori. Inoltre, la fiducia verso di loro è sempre aumentata negli ultimi otto anni, e supera di gran lunga quella che il pubblico nutre nei confronti di altri protagonisti della comunicazione come i giornalisti. Non è quindi vero che la maggior parte dell’opinione pubblica è prevenuta a priori nei confronti degli scienziati e del loro lavoro; cade quindi uno dei principali alibi di molti scienziati per non entrare nel dibattito pubblico, impresa per niente facile. Un ricercatore, infatti, non è, salvo rarissime eccezioni, un comunicatore di professione ed è giusto che sia così (il suo lavoro è, appunto, quello di fare ricerca), tuttavia anche lui ha una responsabilità e un ruolo di primo piano nella costruzione della comunicazione scientifica.
Ma quanto gli scienziati italiani si impegnano su questo fronte? Sempre secondo gli ultimi dati, oltre la metà dei ricercatori dichiara di non aver mai avuto contatti con nessun professionista della comunicazione negli ultimi tre anni, e un altro 36% solo in casi sporadici (da 1 a 5 volte). Se poi si analizzano gli atteggiamenti dei ricercatori nei confronti delle attività di comunicazione scientifica al grande pubblico, il panorama diventa eterogeneo. I sociologi Massimiano Bucchi e Barbara Saracino identificano cinque tipologie di ricercatori in base alla loro attitudine personale nei confronti della pratica di comunicare la scienza al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori.
1) L’importante è comunicare purchè non lo faccia io. A questa categoria appartengono in genere giovani ricercatori sotto i 30 anni. Sono consapevoli dell’importanza di dialogare con la società ma non intendono occuparsene in prima persona.
2) Lasciatemi lavorare. Raggruppa scienziati che non hanno avuto contatti con i media, non hanno intenzione di averne e reputano che tutto sommato sia socialmente poco rilevante comunicare la scienza. Raggruppa ben il 25% dei ricercatori italiani e anche in questo caso si tratta per lo più di ricercatori junior.
3) Oh no, mi tocca comunicare! In questo gruppo rientrano ricercatori a metà della carriera, dai 30 ai 50 anni con già un discreto curriculum scientifico. Hanno contatti occasionali con i media e, nonostante siano collaborativi, non provano piacere nel comunicare e, come il gruppo 2, pensano che non sia poi così rilevante.
4) Te lo dico con parole mie. Fanno parte di questa tipologia i ricercatori che comprendono l’importanza della divulgazione scientifica e provano piacere nel farlo in prima persona. La loro impostazione comunicativa è però orientata al modello del deficit, in cui le conoscenze passano dagli esperti a un pubblico passivo, a cui colmare i buchi informativi.
5) Discutiamone insieme. Raggruppa tendenzialmente ricercatori tra i 30 e i 40 anni, disponibili a comunicare il proprio lavoro e ben consapevoli dell’importanza di farlo. Sono anche coloro più aperti a forme di comunicazioni più partecipative e bilaterali tra scienziati e società.
Le prime tre tipologie che raggruppano tutti coloro che o non comunicano o la fanno di malavoglia, rappresentano oltre il 65 per cento degli scienziati italiani, tra l’altro quelli più giovani. Un altro 16.4%, pur animato da buona volontà, è ancora ancorato al modello del deficit, secondo qui basta la mera trasmissione del sapere scientifico per ottenere una comunicazione soddisfacente. Solo un 18 per cento mostra un approccio positivo, partecipativo e aperto a nuove modalità di dialogo con i non esperti.
Queste osservazioni fanno emergere un rapporto complesso ed eterogeno tra mondo della scienza e società civile, e evidenzia come gli scienziati abbiano bisogno di un piccolo salto di mentalità, che li porti a considerare la comunicazione pubblica della scienza come parte integrante della loro missione, accanto alla ricerca. La strada è ancora lunga e non facile: per questo, è con grande piacere che apprendo di iniziative di divulgazione scientifica in cui sono proprio giovani ricercatori, in quella fascia di età in cui la maggior parte non si impegna nella comunicazione, forse perché concentrati ancora sul far decollare la propria carriera scientifica o perché non si pensa di avere ancora gli strumenti adatti, impegnati in prima linea. È il caso ad esempio di AIRInforma, un network di ricercatori che fa della divulgazione scientifica una delle sue missioni (e di cui ospitiamo anche un interessante blog), e della mostra interattiva DNA AND… la scienza raccontata dai Giovani Ricercatori del CRO (Centro di Riferimento Oncologico di Aviano-PN). La mostra è ospitata nella chiesa di San Gregorio a Sacile, a Sacile (PN) e sarà visitabile dall’8 al 13 maggio, con ingresso gratuito.
La prima edizione si è svolta lo scorso novembre e ha fatto scoprire il Dna a più di 1500 persone; il punto di forza sono proprio i ricercatori che non solo hanno progettato e realizzato la mostra, ma ne sono anche gli “animatori”. Nella mostra, tutto ruota intorno al DNA: si parlerà di ingegneria genetica (come si crea un OGM e a cosa serve nella ricerca), di identità (come il nostro DNA ci rende unici, cos’è il profilo genetico che si usa per il famoso test), di farmaci (perché in alcune persone i farmaci funzionano meglio), di microbi (come studiamo il DNA di virus e batteri per riconoscerli e combattere quelli “cattivi”), di ambiente (come l’ambiente in cui viviamo ci modifica e modifica anche il nostro DNA, in meglio o in peggio) e di tumori (cosa vuol dire sostanza cancerogena e come ad un certo punto una cellula impazzisce e forma un tumore). Il tutto in modalità interattiva e con un laboratorio finale di estrazione “casalinga” del proprio Dna. Tra le novità della seconda edizione una storia della scoperta del Dna, e un approfondimento su come il genoma influenzi la risposta alle sostanze d’abuso, come alcol, tabacco e droghe pesanti.
La mostra DNA AND è bellissimo esempio di divulgazione della scienza “a chilometro zero” (direttamente dal produttore al consumatore), che potrebbe servire come caso studio e ispirazione per molti altri ricercatori in tutta Italia.
Chiara Segré
@ChiaraSegre