Il dilemma della sperimentazione animale: riflessioni tra scienza ed etica
Come affrontare un dibattito tra due posizioni che sembrano inconciliabili? Quali sono i punti fermi da cui si dovrebbe sempre partire per un confronto costruttivo?
Tra tutti temi scientifici, la sperimentazione animale è uno di quelli più controversi e critici nel dibattito pubblico. Molto se ne è scritto, anche nei blog di Fondazione Veronesi. Io fino ad ora ho preferito concentrami su altri temi: tuttavia Lunedi 17 marzo ho assistito a un dibattito pubblico sul tema, organizzato dall’Università Cattolica di Milano, e questo mi ha ispirato una riflessione. Mi scuso con i lettori se questo post sarà piuttosto lungo: so che questo scoraggia da una lettura completa ma è un argomento molto complesso e delicato, e liquidarlo con poche parole serve solo a banalizzarlo.
Premetto, per onestà intellettuale, che io sono a favore della sperimentazione animale quando è necessaria per far proseguire la ricerca scientifica, pur con tutte le restrizioni e i controlli previsti giustamente dalla legge. Spero che questo non impedisca a chi la pensa diversamente da me di proseguire nella lettura con una mentalità aperta all’ascolto dell’altro.
É da tempo che seguo il dibattito etico, scientifico e sociale, con sguardo il più possibile obiettivo e critico. Sono giunta alla conclusione che uno dei più grossi ostacoli alla comunicazione tra due posizioni che sembrano del tutto inconciliabili sia la difficoltà di accettare due capisaldi, il primo da parte degli oppositori della sperimentazione e il secondo da parte di una buona fetta dei favorevoli, scienziati e non solo:
1) La ricerca scientifica biomedica non può fare ancora a meno, a un certo punto della sua indagine, della sperimentazione animale. Non siamo ancora nelle condizioni di avere una sufficiente conoscenza della complessità degli organismi viventi da poter fare delle previsioni o delle simulazioni, ad esempio al computer, senza una verifica su un organismo vivente.
2) La scienza non può eliminare il problema etico: l’utilizzo di esseri viventi per migliorare la condizione di vita degli uomini, ancorché malati, è di fatto un’arbitrarietà della specie umana, una decisione “specista” che pone, anche se in casi specifici come la cura delle malattie, il bene di Homo sapiens come priorità.
Mi preme molto fare chiarezza su questi due punti, perché sono entrambi “manipolati” dalle due parti in gioco, quando ammettere lo stato delle cose sarebbe il punto di partenza per un vero dibattito. Per spiegare meglio cosa intendo, prendo spunto da affermazioni pronunciate dai vari relatori durante il dibattito all’Università Cattolica: sono affermazione di singole persone, ma sono ben rappresentative delle modalità con cui le due fazioni si pongono in generale di fronte al problema.
Molto frequentemente il “partito” degli anti-sperimentazione cerca di trovare basi scientifiche per dimostrare l’inutilità della sperimentazione animale: uno dei relatori, il Dottor Massimo Tettamanti ha mostrato al suddetto convegno una serie di studi pubblicati su riviste scientifiche, in cui i test farmacologici sugli animali non sono stati predittivi di una risposta sull’uomo.
Queste non sono affermazioni false, tutt’altro: quello che non è stato detto è che questi casi sono più eccezioni che la regola; in questo modo, si è fatto passare un caso particolare per una regola generale. In realtà, all’interno della comunità scientifica ci si sta davvero interrogando sulla validità del modello animale per la sperimentazione tossicologica di farmaci. Ed è giusto che sia così: il metodo scientifico lavora proprio attraverso la messa in dubbio di quanto già si è appreso: solo quando i “casi eccezionali” diventano tanti e tali da non essere più l’eccezione, allora è doveroso per la scienza rimettere in discussione i propri “dogmi”. Purtroppo, per quanto riguarda la sperimentazione animale, non siamo ancora a questo punto.
Inoltre, i test di farmaci rappresentano solo l’8,5% dell’utilizzo dei modelli animali: la restante percentuale viene utilizzata nella ricerca di base e in studi di medicina clinica umana e veterinaria, per comprendere i meccanismi fisiopatologici alla base delle malattie. Non è possibile, allo stato attuale della scienza, capire come funziona una complessa malattia come il cancro o la sclerosi multipla semplicemente analizzando delle cellule in vitro. La maggior parte della sperimentazione animale, quindi, viene utilizzata per studi la cui utilità non viene messa in dubbio dalla comunità scientifica, che su questo è molto compatta: il 97% degli scienziati infatti è consapevole, sulla base delle attuali conoscenze, che non si posa farne a meno per acquisire nuova conoscenza biomedica.
Un’altra delle carte giocate dal movimento anti-sperimentazione è riassunta dall’affermazione di un secondo relatore, il Dottor Massimo Filippi: «Mi rifiuto di credere che nel 2014 si è riusciti a identificare il bosone di Higgs (e aggiungo io, anche le onde gravitazionali dell’inflazione all’origine dell’universo) ma che non si trovino ancora alternative altrettanto valide alla sperimentazione animale». Si tratta di un abile trucco comunicativo di grande impatto emotivo, ma non completamente onesto dal punto di vista intellettuale. Non ha infatti assolutamente senso paragonare due discipline scientifiche così distanti come la fisica e la biologia, che hanno storie e sviluppi molto diversi. La prima è una scienza molto più matura: la fisica era già fiorente nel 1600 mentre dobbiamo aspettare il 1800 per assistere alla nascita di una scienza medica e biologica ben strutturata. Duecento anni di scarto non sono poca cosa: è come se paragonassimo la “saggezza” di un uomo di mezza età con quella di un adolescente. È probabile, e auspicabile, che fra duecento avremo le conoscenze necessarie per fare a meno della sperimentazione animale. Ora, nel 2014, non è così, che piaccia o no, che si voglia o no rifiutarsi di crederlo, per ideologia o per speranza. Mi riesce difficile credere che un relatore di esperienza come il Dottor Filippi non sia al corrente della “differenza di età” delle due discipline.
Se gli “anti-sperimentazione” continuano a ostinarsi nell’affermare che si può scientificamente fare ricerca biomedica senza l’utilizzo di modelli animali, sull’altro fronte, quello dei sostenitori della sperimentazione animale, si commette un altro, grave errore: cercare, consciamente e inconsciamente, di giustificare con la scienza un problema che è puramente etico, o di minimizzarlo.
Di fatto, non esiste nessuna motivazione “scientifica” che permetta di sostenere la legittimità o no della sperimentazione animale. La risposta alla domanda: “è giusto “utilizzare” un essere vivente per trovare delle soluzioni che apportano benessere a un’altra specie (in questo caso l’uomo)?” non può che essere di natura etica. Non è possibile, ed è sbagliato, cercare rispondere portando fatti e dati sperimentali; di fatto, si tratterebbe di accettare che nella pratica della sperimentazione animale esiste un dramma morale, a cui la scienza non può dare risposte.
Io credo che questo debba essere ammesso chiaramente dagli scienziati e da coloro a favore della sperimentazione animale durante un dibattito sul tema; pretendere che non esista il problema etico, o che si possa mascherare con le conoscenze scientifiche, è non solo controproducente ma anche sbagliato.
La visione anti-specista molto comune negli oppositori della sperimentazione animale è una legittima posizione filosofica, etica e morale che, o mio modesto parere, se portata avanti con coerenza sempre e in ogni ambito della vita, è estremamente virtuosa e degna di rispetto. Bisogna però essere coerenti e, se rifiutiamo la sperimentazione animale, dobbiamo essere disposti a rinunciare a ogni forma di sfruttamento animale da parte dell’uomo, prima fra tutti smettere di nutrirci di carne, ma anche di derattizzare le città e rinunciare alla disinfestazione da insetti, come scarafaggi e zanzare, anch’essi animali a tutti gli effetti. Bisogna essere anche disposti ad accettarne tutte le conseguenze. Quali? Sicuramente significa rinunciare a nuove cure, tornare a combattere con malattie e condizioni sanitarie degradate di cui ci siamo liberati e di cui adesso, figli di una società generalmente “sana” non ci rendiamo nemmeno conto.
Siamo davvero disposti come collettività a tollerare tutto questo? Chi mi rispondesse «Si, nel nome di una posizione etica anti-specista», chapeau, è degno di grande rispetto, perché accetta di sopportare dolore e malattia per se e per i suoi figli in nome del diritto di ogni essere vivente di non essere sfruttato. È una posizione nobilissima.
Io, pur consapevole del grande dilemma morale e amando e rispettando gli animali nella mia vita quotidiana, non posso affernare onestamente che ne sarei in grado, per quanto “specista” questa visione appaia. E non credo di sbagliare a ipotizzare che come me reagirebbe la maggior parte della popolazione. Cosa fare dunque? Se siete giunti a leggere fino a qui avrete capito che non esiste una soluzione netta e semplice al dilemma della sperimentazione animale; mi auguro però che i futuri dibattiti si basino su presupposti di onestà intellettuale tenendo come punto fermo i due capisaldi di cui ho parlato. E naturalmente, la speranza è che la scienza possa proseguire, anche per arrivare al più presto a un livello di conoscenza che in futuro renda davvero, scientificamente, non più necessaria la sperimentazione su modelli animali.