Una storia che aiuta a comprendere
Lui un medico, il compagno un antiquario. Si definivano "cugini". Siamo negli anni '70 e a quei tempi le coppie omosessuali non si dichiaravano in pubblico
Era una coppia gay di mezza età. Lui un medico, il compagno un antiquario. Quando l’uno parlava dell’altro lo definiva cugino. Siamo negli anni ‘70 e a quei tempi le coppie omosessuali non si dichiaravano pubblicamente, cercavano di tenere nascosto il loro rapporto e la migliore soluzione era presentare l’altro come un parente. Dell’antiquario mi colpiva la tintura dei capelli: era un biondo rossiccio su un viso tendente alla abbronzatura, dell’altro le cravatte sempre sull’azzurro e con grossi disegni, variabili nelle geometrie.
Il medico che aveva un tumore polmonare era stato messo in trattamento chemioterapico con finalità puramente palliative e veniva sempre accompagnato dal compagno che aveva per lui una grande attenzione. Lo accudiva con grande amore. Traspariva un affetto veramente profondo: raramente ho visto un rapporto così intenso nelle coppie eterosessuali. Tra loro vi era un sentimento dolce, puro, limpido privo di malizia. L’antiquario lo accompagnava in sala di attesa sostenendolo con dolcezza, cercava di evitargli fatiche e finita la terapia lo rifocillava con succhi di frutta e merendine che aveva portato da casa. Aveva una pazienza infinita. L’altro, silenzioso e sofferente, esprimeva con lo sguardo gratitudine e riconoscenza. Erano soli al mondo e noi eravamo diventati quasi una seconda famiglia. Quando arrivavano riservavamo loro angoli tranquilli e come era consuetudine del day hospital offrivamo piccoli generi di conforto. Loro sempre educati, visibilmente grati delle nostre attenzioni.
Una volta l’antiquario mi aveva invitato a visitare il suo negozio e volle avere notizie esatte sullo stato di salute del compagno. Fui franco e gli prospettai la imminenza della fine. Si mise a piangere sconsolato: capii che quando c’è vero amore le differenze o le uguaglianze di sesso non vogliono dire niente! Giunti agli sgoccioli avrebbe voluto continuare ad assisterlo a casa, ma fummo noi a consigliare di ricoverarlo: era troppo impegnativo e non ce l’avrebbe fata da solo. Ricordo la sua disperazione quando mancò. Una disperazione composta, non gridata, ma con tante lacrime. Andammo al funerale. Sulla bara, che stava affondando nella terra, gettò tra il pianto una rosa. Fummo commossi da quel gesto, per nulla teatrale ma intimo anche se in pubblico. Perché racconto questo episodio? Perché nella nostra professione abbiamo il privilegio di poter cogliere, fino in fondo, nelle famiglie che incontriamo, l’amore che dà la forza per affrontare il dolore della malattia. Dico famiglie perché è così la realtà che ho sperimentato!
Alberto Scanni
@AlbertoScanni