Il medico non dialoga? Anche questa è malpractice
Possiamo ancora accettare "bravi" medici ma brutali nella comunicazione col malato?
Malpractice non è solo curare tecnicamente male un malato, ma è anche non dare risposta alle sue domande, ai suoi dubbi e alle sue paure! Malpractice è non capire che non si ha tra le mani un freddo oggetto di lavoro, un ammasso di sintomi, ma un uomo con tutti i suoi se, tutti i suoi ma, che deve essere ascoltato, confortato e aiutato a superare una fase difficile della vita.
Qui irritazione o brutale convinzione di perdere del tempo non sono ammesse. La paura di non aver più una vita piena, la paura di morire e di vivere malamente sono tutte cose serie da cui il medico non può fuggire. L’aspetto dialogante e consolatorio della professione è un valore imprescindibile. La parola ha un potere enorme sullo stato d’animo di chi ascolta, responsabilizza chi la pronuncia, è diversa a seconda dei contesti e delle situazioni, può infondere speranza o, se mal posta, ingenerare disperazione.
Il medico non è un meccanico, aggiustare non basta perché il progetto riesca appieno. E’ un privilegio che il malato l’abbia scelto, messo la vita nelle sue mani e il “dargli di lungo” è grave.
Il concetto di malpractice va dunque allargato: la mancata disponibilità al dialogo deve diventare colpa. Provarlo nelle farraginose dinamiche del sistema sanitario è difficile ma non è possibile che il malato subisca un subliminale ricatto psicologico. L’affermazione: ”Io ti ho salvato la vita, cosa vuoi di più!” è pura crudeltà. Ho chiesto a un direttore sanitario notizie di un suo operatore. Risposta testuale: "È brutale ma è bravissimo". Questo non è accettabile!