Conflitto tra medici ospedalieri e medici di famiglia
Tra le due realtà non esiste dialogo, tranne rari casi. Perchè? E come superare le barriere?
Esiste una reale integrazione tra ospedali e territorio nelle nostre città? O meglio esiste una reale integrazione tra medici ospedalieri e medici di famiglia? La risposta non è positiva. Spesso sentiamo pazienti che si lamentano sia degli uni che degli altri: “Il mio medico non mi ha dato le medicine che mi hanno prescritto in ospedale”, ”In ospedale non mi hanno fatto l‘esame che aveva prescritto il mio dottore”.
Affermazioni che denotano inequivocabilmente che tra le due realtà non esiste dialogo, cosa peraltro condivisa, tranne rari casi, sull’uno e sull’altro fronte. Quali le ragioni ciò ?
Anzitutto esiste una atavica presunzione degli operatori ospedalieri di essere depositari in assoluto della verità diagnostica e terapeutica di chi si affida alle loro cure. Per contro chi opera nel territorio, ritiene di non essere sufficientemente coinvolto e di non essere riconosciuto come reale depositario della salute del proprio paziente. Spesso assistiamo a indicazioni alla dimissione non condivise dai curanti, così come vengono ritenuti non necessari alcuni ricoveri proposti dai medici di famiglia.
Quanti controlli oncologici o cardiologici potrebbero essere demandati ai medici di famiglia senza costringere i malati a recarsi sempre negli ambulatori ospedalieri. Basterebbero protocolli comuni e soprattutto una fiducia reciproca per semplificare il tutto, senza aprioristici arroccamenti sindacali dove la monetizzazione di qualsiasi atto è condizione pregiudiziale al cambiamento. E’ indubbio che le istituzioni devono operare per favorire le integrazioni informatizzando, promulgando regole e decreti, ma il problema non è tecnico, è di mentalità.
E’ necessaria una svolta culturale per cui ospedalieri e medici di famiglia si sentano parte di un unico processo. La appartenenza deve essere reale e non formale per cui, se al centro del dibattito viene posta una onesta e non egoistica mentalità di cambiamento, questo non può che partire dal basso. Bisogna che i singoli si impegnino, che gli ospedali si aprano ai medici di famiglia, che lì vi siano momenti di confronto settimanali, che i curanti vadano a visitare i loro malati ricoverati, così come chi opera in ospedale utilizzi maggiormente il telefono per informare e chiedere notizie, che insieme si discutano i casi e si decida una strategia e che non si voglia sempre per queste iniziative un corrispettivo economico.
E’ venuto il tempo di superare la difesa del proprio orticello, di sindacalizzare tutto, di scaricare sempre sul sistema le difficoltà. Il cambiamento comincia dai singoli prima ancora che dalle trattative globali: se ognuno nel piccolo si impegnasse le cose certamente migliorerebbero.
Alberto Scanni