Nuovi approcci per le epatopatie e le malattie metaboliche
Numerose scoperte nell’ultimo trentennio hanno favorito lo sviluppo di protocolli terapeutici basati sull’utilizzo di cellule in combinazione o in sostituzione al trapianto d’organo
Di Roberto Gramignoli
Editor: Erica Repaci
Revisori esperti: Nicolò Musner, Manuela Lanzafame
Revisori naive: Nicola Ganci, Carla Molinari
Oggi sappiamo che, stimolando i processi di rigenerazione cellulare e riparazione, si possono trovare strade alternative al trapianto d’organo anche se la sostituzione di un intero organo rimane l’unica terapia salvavita che permetta di ripristinare funzioni gravemente compromesse. Il trapianto, anche se potenzialmente risolutivo, è limitato dalla difficoltà di reperire organi in numero sufficiente a soddisfare la crescente richiesta di questo tipo di terapia. I nuovi approcci alternativi al trapianto impiegano specifiche popolazioni di cellule che dopo essere state sottoposte a particolari procedure di prelievo, manipolazione e identificazione in ambienti che prevengano la loro contaminazione, possono essere conservate vitali per lunghi periodi di tempo. Queste cellule sono poi infuse nel paziente per attuare i processi rigenerativi che porteranno alla cura o miglioramento della patologia. Questa nuova prospettiva di trattamento è definita con il termine di medicina rigenerativa [1]. La terapia cellulare è potenzialmente in grado di arrestare o addirittura invertire il processo che causa la malattia. Una volta trapiantate, le nuove cellule agiscono attraverso due meccanismi principali. Da un lato sono in grado di sostituire le cellule danneggiate del paziente ripristinandone la normale funzione, dall’altro stimolano la rigenerazione e la riparazione del tessuto malato circostante, aiutando le cellule del paziente stesso a riattivare processi rigenerativi inefficaci. Questo permette di produrre in tempi brevi un effetto terapeutico che permane stabilmente nel tempo, mantenendo l’organo del paziente in loco. Inoltre la terapia cellulare consente e facilita la rigenerazione e la riparazione del tessuto malato da parte delle cellule dello stesso organismo, sbloccando i processi verso una naturale rigenerazione. Approcci basati sull’infusione di cellule al fine di indurre una naturale riparazione del tessuto danneggiato o per ripristinare funzioni mancanti, sono stati usati per secoli, a partire dalle prime trasfusioni di sangue sino ai più complessi trapianti di midollo osseo (il primo riuscito trapianto fu effettuato nel 1968).
PROSPETTIVE DELLA MEDICINA RIGENERATIVA - L’epatologia è fra le discipline che maggiormente può trarre beneficio dagli innumerevoli sviluppi della medicina rigenerativa e delle terapie cellulari in particolare [2], in considerazione delle numerose epatopatie congenite, degenerative e infettive potenzialmente curabili, per cui oggi il trapianto di fegato rappresenta l’unica alternativa terapeutica. L’aumento dei casi di epatopatia cronica terminale e l’estendersi delle indicazioni al trapianto, hanno portato negli ultimi anni alla crescita del divario tra gli organi disponibili e i pazienti in lista d’attesa [3]. Gli approcci alternativi hanno così raccolto l’interesse di buona parte della comunità scientifica. Mediante il trapianto di cellule possiamo quindi offrire nuove opportunità per il trattamento di malattie ritenute finora incurabili. È così che negli ultimi anni il trapianto di epatociti si è ritagliato un ruolo di tutto prestigio nella medicina rigenerativa epatica [4-6]. La rigenerazione del tessuto epatico è, infatti, un evento ben noto e comune in natura (si stima che il nostro fegato si rigeneri completamente ogni anno). Tuttavia questa affascinante e importante capacità viene spesso ostacolata o resa inefficace da diverse patologie. Il trapianto di epatociti maturi e funzionanti si è rivelato uno strumento importante al fine di fornire al tessuto originario il tempo e le capacità necessarie a superare l’insulto che ne aveva prodotto il danno letale. Gli epatociti rappresentano circa l’80% delle cellule del nostro fegato. Sono cellule adulte, mature, ma con una peculiare attitudine a replicarsi, pur mantenendo la capacità di svolgere funzioni importanti per l’organismo (si stima che il fegato svolga più di 500 funzioni diverse, di cui gli epatociti sono gli indiscussi attori principali). Più di 30 anni di ricerca hanno dimostrato che molteplici patologie del fegato, siano esse di natura cronica o acuta, possono essere trattate mediante il trapianto di epatociti. Ma come si ottiene una sospensione di epatociti idonea all’infusione in pazienti? La produzione di preparati contenenti epatociti idonei all’infusione in pazienti, sia in termini di qualità che quantità sufficiente, ha richiesto diversi anni prima di venire ottimizzata. I primi tentativi di isolamento sono stati compiuti su fegati di animali da laboratorio (ratti e topi) quasi cinquant’anni fa [7], ma solo negli anni più recenti tale procedura è stata adattata al tessuto umano e ottimizzata per le procedure cliniche. Gli epatociti vengono isolati da fegati (generalmente organi esclusi da trapianto) mediante una procedura che unisce l’isolamento meccanico ad una delicata disgregazione del tessuto ottenuta tramite l’azione di enzimi specifici (collagenasi e proteasi) che liberano gli epatociti dalla matrice extra-cellulare, di cui è composta l’architettura di sostegno del fegato. Il tessuto viene prelevato dal paziente donatore, il sangue che irrora il fegato (presente in grande quantità in questo organo) viene accuratamente rimosso, quindi si sfrutta il sistema circolatorio per mettere in circolo l’enzima idoneo a degradare la matrice extra-cellulare che circonda gli epatociti (accanto una rappresentazione grafica della procedura utilizzata per iniettare le cellule nel paziente attraverso la vena ombelicale). Una volta degradata tale impalcatura, il tessuto viene meccanicamente disgregato e così facendo le cellule vengono rilasciate e raccolte. Le cellule vengono lavate sterilmente, per rimuovere anche le ultime tracce dell’enzima usato durante la digestione e isolare gli epatociti, che sono la sola componente cellulare d’interesse nel trapianto cellulare epatico. Una volta isolate, le cellule vengono iniettate nel torrente circolatorio del paziente ricevente, generalmente in prossimità del fegato, con una procedura chirurgica poco invasiva, che prevede l’incannulazione della vena ombelicale, quando possibile [6]. È quindi evidente come tale terapia sia più tollerabile rispetto a un vero e proprio trapianto d’organo, in quanto non richiede alcuna incisione né lascia vistose cicatrici.
RISULTATI CLINICI - In questo modo nel corso degli ultimi decennisono state effettuate più di 150 infusioni di epatociti umani in pazienti in lista di trapianto e in pazienti affetti da malattie metaboliche. Il trapianto di epatociti è stato utilizzato con successo come terapia a sostegno del trapianto d’organo, consentendo a pazienti in lista d’attesa di “guadagnare tempo”, aumentando così la loro probabilità di sopravvivenza in attesa di un fegato compatibile. In alcuni casi, al trapianto di epatociti è seguita la spontanea rigenerazione del tessuto epatico, portando in tal modo all’uscita dalla lista d’attesa [4,6]. Tuttavia, nonostante i vent'anni di storia, il trapianto di epatociti è ancora oggi considerato una terapia tra le più innovative, e solo 14 Centri nel mondo sono stati in grado di eseguirlo (con diversi livelli di successo). Negli ultimi anni solo cinque Istituti Europei (Londra, Stoccolma, Valencia, Bruxelles, Hannover) e la UPMC (l’ospedale universitario della città di Pittsburgh in Pennsylvania, Stati Uniti) hanno eseguito il trapianto di epatociti nell’uomo. Ma quali sono le limitazioni a una più diffusa applicazione di tale terapia? Le ragioni sono molteplici; focalizzeremo la nostra attenzione sugli ostacoli di carattere scientifico che hanno fortemente limitato negli anni passati l’utilizzo del trapianto di epatociti a soccorso di epatopatie fulminanti e/o croniche. Il primo importante ostacolo che è stato necessario superare è stato la messa a punto di una tecnica efficiente e l’identificazione di reagenti idonei nell’isolare epatociti umani [8]. Il grado di tale efficienza viene misurato attraverso due parametri fondamentali: (I) gli epatociti umani isolati devono essere vitali (condizione spesso tutt’altro che scontata, data la complessità del procedimento di isolamento cellulare nonché le variabili legate ai tessuti utilizzati); (II) devono essere epatociti maturi e funzionanti. Anche se possono apparire banali, sono proprio tali caratteristiche che hanno richiesto diversi anni di studio, per giungere alla messa a punto di procedure a norma e specifiche per la preparazione di prodotti cellulari idonei al trapianto nell’uomo e con caratteristiche che ne consentano un’adeguata efficacia terapeutica. Nei rigorosi test cui vengono sottoposte le cellule che vengono isolate nei nostri Centri, verifichiamo che le funzionalità epatiche siano mantenute anche a lungo termine, e quando possibile, ricorriamo a tali analisi per abbinare il paziente ricevente alle cellule del donatore, con lo scopo di ottenere la più efficiente e rapida correzione della patologia possibile [9]. Un altro importante ostacolo non ancora superato è la conservazione degli epatociti. Generalmente, nelle altre applicazioni della medicina rigenerativa, le cellule vengono congelate e conservate in attesa di un paziente ricevente. Con le cellule del fegato, purtroppo, la conservazione a lungo termine non è al momento possibile. Esperimenti e test funzionali hanno valutato e reso possibile la conservazione di epatociti umani per non più di 2-4 giorni, in attesa di un trapianto [10]. Gli epatociti umani, infatti, non tollerano gli attuali protocolli di congelamento cellulare, e nuove strategie sono quindi al vaglio. Al momento si ovvia a tale problema intervenendo tempestivamente quando un tessuto epatico si rende disponibile, e in contemporanea preparando il paziente ricevente precedentemente selezionato e valutato.
QUANTE CELLULE OCCORRE INFONDERE? - Un altro interessante quesito è il numero di cellule che è necessario infondere al fine di garantire un certo grado di sicurezza nel correggere la patologia. Malattie del metabolismo richiedono infusioni di epatociti che costituiscano il 5-10% della massa del fegato (a seconda della patologia da correggere) [4,6]. Ovviamente tale numero dipende dalle dimensioni corporee del paziente, che può, come ovvio, variare fortemente tra un paziente pediatrico ed un paziente adulto. Ricorrendo ad una stima approssimativa, si può facilmente comprendere perchè si debba ricorre a molteplici infusioni di epatociti e spesso a donatori diversi al fine di infondere i 5-15 miliardi di cellule che costituiscono il 10% della massa epatica di un paziente medio. Bisogna ricordare come anche nel trapianto di epatociti, così come avviene per il trapianto d’organo, è necessario ricorrere ad una terapia immunosoppressiva post-trapianto, al fine di non andare incontro ad un rigetto (sia esso di cellule o d’organo). Il trapianto di epatociti, così come il trapianto di fegato, è nella maggior parte dei casi documentati una terapia allogenica, in cui cellule del paziente ricevente provengono da donatori, caratterizzati da diversi gradi di compatibilità. Infine, la causa che ha limitato il trapianto di epatociti è da sempre la disponibilità di tessuti epatici umani da cui isolare cellule idonee. In questi vent’anni sono stati utilizzati fegati giudicati non idonei al trapianto d’organo, ovvero organi caratterizzati da un elevato grado di steatosi (accumulo di grasso) o che avevano subito danni durante il prelievo o la cui circolazione sanguigna risulta alterata e quindi potrebbe generare un rischio nel paziente ricevente. Tale limitazione nell’approvvigionamento di tessuti da utilizzare è stata parzialmente risolta dall’utilizzo di fegati espiantati durante il trapianto [11]. Per esempio, epatociti isolati da pazienti affetti da una data patologia genetica del metabolismo (quale la malattia delle urine a sciroppo d’acero, MSUD, causata dalla carenza dell’enzima BCKAD), sono stati isolati e utilizzati per correggere una diversa malattia genetica (fenilchetonuria), causata da mutazioni nel gene PAH. Questo è stato possibile applicando la tecnica “a mosaico”, ovvero in cui gli epatociti del donatore colonizzano solo parzialmente il fegato del ricevente e correggono la patologia.
Gli epatociti trapiantati, anche se mancanti dell’enzima BCKAD, hanno un’espressione a livelli normali per l’enzima PAH, sufficiente a ripristinare l’attività e correggere la patologia nel ricevente. Le cellule del ricevente complementano il difetto del donatore senza trasferire la patologia. Giacché il trapianto di cellule ha la capacità di influenzare diversi processi di riparazione e rigenerazione, e al fine di ovviare all’ostacolo di reperire epatociti in numero sufficiente per trattare tutti i possibili pazienti, diversi gruppi hanno continuato ad investigare sorgenti cellulari alternative, cellule staminali incluse. Le cellule staminali sono caratterizzate da un elevato grado di proliferazione e dalla spiccata capacità di differenziarsi in diverse tipologie cellulari, ma con un diverso grado di funzionalità. Molte delle cellule fino ad oggi identificate, prima in tessuti fetali e recentemente in soggetti adulti, hanno spesso soddisfatto i criteri di staminalità (ovvero la peculiare capacità di replicarsi e maturare in diverse tipologie cellulari), ma nessuna fino ad ora aveva passato i rigorosi test di funzionalità epatica. È stato necessario identificare cellule che non solo avessero caratteristiche di staminalità, ma anche e soprattutto fossero in grado di maturare efficacemente sino a divenire cellule epatiche adulte e funzionanti (senza ovviamente generare alcun rischio di dare origine a neoplasie tumorali, problematica questa sfortunatamente spesso messa in evidenza da procedure sperimentali mediante l’utilizzo di determinate cellule staminali).
UNA NUOVA TERAPIA CELLULARE PER IL FEGATO - La ventennale esperienza nell’isolamento e preparazione di epatociti idonei al trapianto, ha condotto all’identificazione nelle cellule epiteliali dell’amnion della placenta (anche definite cellule AE) quali sorgente cellulare dalle grandi potenzialità per la cura di malattie epatiche. Poiché i risultati pre-clinici ottenuti si sono rivelati molto incoraggianti [12-13], siamo stati contattati da diverse organizzazioni di famigliari interessati a tali terapie e abbiamo ottenuto tutti i permessi per iniziare a tempi brevi i primi trapianti (entro la fine del 2015). Le prime patologie che molto probabilmente usufruiranno di tale approccio terapeutico saranno malattie metaboliche quali la Fenilchetonuria o la MSUD, nonché tutte le altre patologie del metabolismo che già in passato sono state con successo oggetto di trapianto di epatociti. Forti dell’esperienza con cellule epatiche mature umane e del loro ruolo nei trapianti clinici, un team di ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma ha realizzato i primi protocolli clinici e confidano di poter ampliare notevolmente la gamma di patologie che si potevano fino ad oggi trattare mediante l’infusione di epatociti. Negli ultimi anni l’interesse verso le cellule della placenta è enormemente cresciuto. Del resto le placente umane derivate da parti a termine hanno come destino ultimo la distruzione, e non sollevano problemi né di natura etica né religiosa. Un beneficio sopra tutti ha attirato l’attenzione della comunità scientifica in particolare: la promettente e finora unica possibilità di realizzare protocolli terapeutici senza dover ricorrere ai “fastidiosi” protocolli di immunosoppressione. Per una più puntuale descrizione di questa nuova terapia rimandiamo il lettore a una successiva relazione, in cui, speriamo, saremo in grado di documentare i benefici e gli innumerevoli vantaggi nell’utilizzo di questa nuova sorgente cellulare.
BIBLIOGRAFIA -
[1] Heslop JA, Hammond TG, Santeramo I, Tort Piella A, Hopp I, et al. Concise review: workshop review: understanding and assessing the risks of stem cell-based therapies. Stem Cells Translational Medicine; 2015.
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[3] Dati sui trapianti fegato della United Network for Organ Sharing (UNOS)
[4] Fisher RA, Strom SC. Human hepatocyte transplantation: worldwide results. Transplantation; 2006.
[5] Dhawan A(1), Puppi J, Hughes RD, Mitry RR. Human hepatocyte transplantation: current experience and future challenges. Nature Reviews in Gastroenterology & Hepatology; 2010.
[6] Gramignoli R, Vosough M, Kannisto K, Srinivasan RC, Strom SC. Clinical hepatocyte transplantation: practical limits and possible solutions. European Surgical Research; 2015.
[7] Berry, MN, Friend DS. High-yield preparation of isolated rat liver parenchymal cells: A biochemical and fine structural study. The Journal of Cell Biology; 1969.
[8] Gramignoli R, Green ML, Tahan V, Dorko K, Skvorak KJ, et al. Development and application of purified tissue dissociation enzyme mixtures for human hepatocyte isolation. Cell Transplant; 2012.
[9] Gramignoli R, Tahan V, Dorko K, Venkataramanan R, Fox IJ, et al. Rapid and sensitive assessment of human hepatocyte functions. Cell Transplant; 2014.
[10] Gramignoli R, Dorko K, Tahan V, Skvorak KJ, Ellis E, et al. Hypothermic storage of human hepatocytes for transplantation. Cell Transplant; 2014.
[11] Gramignoli R, Tahan V, Dorko K, Skvorak KJ, Hansel MC, et al. New potential cell source for hepatocyte transplantation: discarded livers from metabolic disease liver transplants. Stem Cell Research; 2013.
[12] Strom SC, Skvorak K, Gramignoli R, Marongiu F, Miki T. Translation of amnion stem cells to the clinic. Stem Cells and Development; 2013.
[13] Skvorak KJ, Dorko K, Marongiu F, Tahan V, Hansel MC, et al. Placental stem cell correction of murine intermediate maple syrup urine disease. Hepatology; 2013.
Autore: Roberto Gramignoli
Originario della provincia di Bergamo (Fara Gera d’Adda), ha 40 anni e vive a Stoccolma (Svezia) con la moglie Daniela. Si è laureato in Scienze Biologiche a Milano nel 2002, dopodiché ha iniziato a occuparsi di epatologia e terapie cellulari presso il Centro Trasfusionale e Immunologia dei Trapianti dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Occupandosi di terapie cellulari, ha dapprima conseguito un Master in Microscopia e Tecniche di Analisi Microscopica presso l’Università di Genova, dopodiché si è specializzato in Genetica Medica presso l’Università degli Studi di Milano. Al fine di migliorare e superare alcuni degli ostacoli che limitano l’utilizzo clinico di epatociti in Italia, nel 2007 si è trasferito (come molti ricercatori Italiani, inizialmente “in prestito”, ma presto tradottosi “indefinitivamente”) in un Istituto di ricerca straniero: la UPMC (University of Pittsburgh Medical Center), in Pennsylvania (USA). Negli anni che hanno seguito, e grazie alla collaborazione con il prof. Strom (“padre fondatore” e maggior esperto di trapianto di epatociti), il loro gruppo è stato in grado non solo di ottenere l’approvazione da parte del NIH (il corrispettivo Statunitense dell’Italiano Ministero della Sanità) e del FDA (analogo Americano dell’Agenzia del Famaco) per ricominciare i trapianti clinici di epatociti in pazienti affetti da epatopatie fulminanti e malattie del metabolismo, ma anche di migliorare e standardizzare tale procedura, oggi adoperata in diversi altri Centri. Nel 2013 consegue il dottorato in Medicina Molecolare e Traslazionale presso l’Università di Milano-Bicocca. Nel frattempo, nel 2012, si è trasferito al Karolinska Institutet a Stoccolma, dove attualmente ricopre la carica di Assistant Professor nel Dipartimento di Medicina di Laboratorio. È autore di pubblicazioni su riviste e di capitoli di libri di settore, membro delle principali Società Internazionali per lo studio e il trapianto di cellule (staminali e adulte), nonché è a tutt’oggi il ricercatore Italiano con il maggior numero di trapianti clinici di epatociti al suo attivo nel mondo (tristemente tutti effettuati in terra straniera). Tra i progetti di punta del suo laboratorio, lo studio delle interazioni tra cellule staminali dell’Amnion placentale e microambiente epatico, il differenziamento in vitro di cellule pluripotenti (staminali umane, epatociti fetali e iPS), creazione e validazione di modelli tossicologici “alternativi” atti a migliorare/diminuire l’utilizzo di animali da laboratorio, infine la creazione di una Banca di Cellule Epiteliali dell’Amnion Placentale, per nuove terapie cellulari (in particolare stanno per iniziare un trial clinico indirizzato al trattamento di malattie metaboliche e epatopatie croniche e/o acute).