L’eredità di Basaglia. Come ciascuno di noi può prendersi cura della propria salute mentale
13 maggio 2018, 40 anni della legge Basaglia: qual è oggi la condizione chi vive con una malattia mentale?
di Tiziana Campanella
Editor: Umberto Maria Meotto, Federico Forneris
Revisori Esperti: Carola Salvi, Emanuela Offidani
Revisori Naive: Edoardo Migliori, Anonimo
13 maggio, una data fondamentale, che sancisce come, per la prima volta in Italia, siamo stati i primi in qualcosa. Oggi decorrono 40 anni dalla legge Basaglia, che nel 1978 sancì la chiusura dei manicomi e istituì i servizi di igiene mentale, con lo scopo principale di non ledere la dignità e la qualità della vita delle persone, rispettandone la libertà, istituendo, fino ad oggi, più di 183 Dipartimenti di Dipartimenti di Salute Mentale [2], divenendo così a livello internazionale modello di riferimento.
È sempre difficile essere i primi innovatori; i fautori dei veri cambiamenti rischiano sempre qualcosa, ma portano a casa risultati che fanno la storia. Basaglia è stato uno di questi, che ha avuto il coraggio di mettere al centro del processo di cura, l’uomo e i suoi bisogni. È grande l’eredità professionale e soprattutto umana, che Basaglia ha lasciato, ma sfortunatamente, non è sufficiente.
Sebbene secondo l’analisi dei dati dell’Istituto Superiore di Sanità [3], l’incidenza della depressione sia lievemente diminuita in Italia, essa rimane ancora un fenomeno di vasta entità, cui si aggiunge, oggi, un diminuito benessere psicologico tra giovani e adulti [4].
L’analisi dei dati del Sistema Informativo per la Salute Mentale del 2015 [5] evidenzia come gli utenti psichiatrici assistiti dai servizi specialistici nel corso del 2015 ammontano a 777.035 unità (mancano i dati della Valle d’Aosta, della P.A. di Bolzano e della Sardegna), con tassi standardizzati che vanno dal 107,73 per 10.000 abitanti adulti in Basilicata fino a 205,82 nella regione Emilia Romagna.
Il rapporto è stato presentato a Roma in occasione del Convegno del 4 dicembre 2016, risultato dei dati rilevati su territorio nazionale attraverso il sistema informativo per la salute mentale (SISM).
Il quadro relativo alla diffusione dei disturbi mentali in Italia, mette in luce come la patologia più frequente, è la depressione (16,3 casi su 10.000 ab.) seguita dalle sindromi nevrotiche e somatoformi (10,6 casi su 10.000 ab.), schizofrenia e altre psicosi funzionali (6,1 casi su 10.000 ab.).
Cosa non va? Chi ha realmente il potere di continuare a cambiare le cose?
L’ipotesi sottostante, tacitamente condivisa, è quella di ritenere che i servizi territoriali siano, da soli, in grado di rispondere in modo univoco ai problemi, dimenticando come, al cambiamento strutturale dei servizi, deve poter corrispondere necessariamente, anche un cambiamento culturale. Lo diceva anche Basaglia. Convinto che il solo cambiamento delle strutture sociali non fosse sufficiente a porre fine al problema dell’oppressione dell’uno sull’altro e per costruire “una società (così ) civile” da essere capace “di accettare tanto la ragione quanto la follia”, che “esiste ed è presente in noi come lo è la ragione” [6].
In Brasile, nelle famose Conferenze, alcuni mesi prima di morire, Basaglia, testimoniando la propria esperienza dirà:
“[…] la cosa importante è che abbiamo dimostrato che l'impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent'anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un'azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare” [7].
È possibile cambiare le cose, è questo il più grande insegnamento di Basaglia, e per questo abbiamo l’onere e l’onore di portarlo avanti.
“Avevamo già capito – diceva Basaglia – che un individuo malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro e di tutto ciò di cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno, questa è stata la nostra scoperta” [8]
Basaglia inoltre aveva intuito che il cambiamento era strettamente interconnesso con la possibilità di ridare voce al malato, che unito al sapere del tecnico, cui veniva invece delegato tutto il potere, inventava una nuova lingua, proprio perché al malato veniva finalmente offerta l’opportunità di partecipare a quel sapere. [9]
L’opera di Basaglia è rappresentata dal tentativo di riportare la malattia mentale in un terreno di comunità umana, in cui il malato ha gli stessi diritti di ogni altra persona.
Oggi per continuare la missione intrapresa, il Piano di Azione sulla Salute Mentale [10] sottolinea come, per ottenere un sistema di cura più efficace, sia indispensabile continuare a puntare alla prevenzione e colmare il divario tra il modello ideale di cura della persona con malattia mentale e la concretezza della prassi. Questo vuol dire avvicinare sempre di più il cittadino alla cultura della salute mentale puntando a creare una cultura non di emergenza ma di conoscenza, al fine di abbattere così uno dei più grandi fenomeni legati alla salute mentale, il pregiudizio sociale e il relativo stigma.
Come riportano gli esperti del settore, per favorire il piano di azione occorre un investimento attivo nel cercare di portare la salute mentale nella quotidianità del cittadino.
Nella Dichiarazione sulla Salute Mentale in Europa, firmata ad Helsinki nel 2005 [11], si legge: “Non c’è salute senza salute mentale”, sottolineando anche qui, l’importanza della lotta allo stigma e alla discriminazione, a favore della salvaguardia dei diritti umani e della dignità delle persone con malattie mentali, così come della loro inclusione sociale. Un ruolo fondamentale è conferito proprio all’importanza dell’informazione con uno scopo ben preciso: quello di rafforzare le capacità delle persone con malattia mentale, e incrementare la cultura alla salute, che non può prescindere da quella mentale.
Cosa vuol dire?
Vuol dire restituire alla persona che vive un momento di disagio, che sia cronico o acuto, la possibilità di sviluppare appieno il proprio diritto alle decisioni circa la cura, di vestire un ruolo attivo piuttosto che passivo, interattivo e non ricettivo, sviluppando così, processi di empowerment [12] e promuovendo una cultura di recovery [13].
Oggi come quarant’anni fa, dobbiamo più che mai lottare per superare quella netta distinzione tra salute e malattia, considerati come poli opposti, diceva Basaglia, con la stessa naturalezza con cui si dice piove o c’è il sole […]; assolutizzazione che nega il rapporto dialettico e ipotizza la salute come assenza di malattia, come se la norma non comprendesse la salute e la malattia [14].
Se fondamentale appare, dunque, nella cura, sapere che si può e si ha il diritto di sentirsi parte interagente del proprio benessere, lo è ancora di più nella prevenzione.
Purtroppo, il pregiudizio sociale e lo stigma, che da sempre hanno accompagnato l’immagine del malato mentale, hanno contribuito, nel corso della storia, a consolidare l’idea di malato come irreversibile, pericoloso, destinato, dunque, a vivere ai margini della società. Una persona cardiopatica, affetta da diabete, o con un tumore, non viene emarginata, perché non viene identificata con la malattia. Nella psichiatria, purtroppo non è così. Oggi esistono tentativi di sovvertire questo stereotipo, proprio mirando a offrire al cittadino un’accurata informazione su ciò che concerne la salute mentale. La persona non è la depressione, ma ci si rannicchia dentro come se lo fosse, e la cultura e lo stigma non fanno altro che rinforzare questo atteggiamento.
Basaglia si è battuto per cambiare quella modalità escludente della società, per soverchiare il potere che imprigiona l’uomo in un’etichetta di malato sterile [15]. La lotta al pregiudizio, risulta oggi più importante che mai, perché diviene l’unico e l’ultimo, vero muro da abbattere. Il pregiudizio è legato al concetto di diversità che accomuna fenomeni sociali che hanno come uguale denominatore il rischio di emarginazione in cui, l’altro, non conosciuto diviene potenzialmente nemico[16]. Non è solo compito degli operatori sanitari favorire la lotta al pregiudizio, ma anche e soprattutto responsabilità collettiva [17].
Ciò che non appartiene alla nostra cultura è la facoltà (e il diritto) di chiedere prontamente aiuto. Aiuto proprio come si corre dal medico quando il cuore sobbalza e ci sembra di avere un infarto, o quando la pressione gioca scherzi di ribellione, o lo stomaco brontola dalla rabbia; bisognerebbe, invece, più correttamente, iniziare a reintrodurre i concetti di psicosomatica intesa come possibilità di non vedere separati mente e corpo, ma integrati [18].
Diffondere la cultura sui rapporti che intercorrono tra il nostro corpo e la nostra mente è fondamentale per non sottovalutare disagi o momenti di crisi che presentano sintomi silenziosi e che se non ascoltati e protratti nel tempo, possono divenire cronici. Questo incrementa ulteriormente il divario tra la presa in carico della medicina (il corpo) e la presa in carico della psichiatria (la mente), come branche incompatibili tra loro.
Vero è che la complessità dei Servizi Territoriali, sembra prevalentemente fruibile solo dai pazienti psichiatrici “gravi”, che presentano, come dice la Legge 180, alterazioni psichiche tali da richiedere un intervento terapeutico psichiatrico [19]. Si tratta di forme che, in sintesi, cadono entro le aree della schizofrenia, della paranoia, della depressione o della psicopatia.
Chi e quali servizi rispondono invece a tutte quelle situazioni di crisi o di disagio che potrebbero essere definite come “non gravi”, e far sì che non lo diventino?
La risposta immediata a tutta quella sintomatologia come insonnia, ansia generale, disturbi gastrointestinali, ecc., che trasversalmente attraversa diverse problematiche psicologiche, viene offerta dai medici di base, che rispondono sostanzialmente non con un ascolto o un rinvio dallo specialista, psicologo psicoterapeuta, psichiatra, ma nella maggior parte dei casi, con un incremento di un’altra problematica che è “l’uso e l’abuso degli psicofarmaci” (Cipriani, P., 2015)[20].
Oggi, sostiene Cipriani, il manicomio non è più rappresentato da fasce e muri, o sbarre, ma è diventato astratto, invisibile. Il vero manicomio sono gli psicofarmaci che riducono gli stati d’animo (lutto, rabbia, timidezza, tristezza, disattenzione) a patologie unicamente da curare con il farmaco giusto.
Tra queste due alternative, cioè rivolgersi ai Servizi Territoriali in caso di “gravità” e il tenere a bada la sintomatologia attraverso la prescrizione del farmaco, esiste la possibilità di iniziare a diffondere una cultura in cui re-imparare a prendersi cura della propria salute mentale e disabituarsi a rivolgersi a un professionista della salute mentale, sia esso psicologo, psicoterapeuta, o psichiatra, privato e pubblico, sempre e solo come se fosse l’ultima spiaggia.
Come suggerito dal Piano Nazionale di azioni per la salute mentale (PANSM): “I dati disponibili sulle attività dei DSM e dei servizi per i disturbi neuropsichici dell’infanzia e dell’adolescenza sembrano indicare una scarsa progettualità nei percorsi di assistenza. Tale situazione, riconducibile a una insufficiente differenziazione della domanda genera il pericolo di un utilizzo delle risorse non appropriato alla complessità dei bisogni presentati dagli utenti. In molti casi, gli utenti con disturbi gravi ricevono percorsi di assistenza simili agli utenti con disturbi comuni e viceversa”[21]. L’informazione e la prevenzione giocano dunque, un ruolo fondamentale [22].
La legge 180 oggi, non è sufficiente.
L’opera di Basaglia è avvenimento storico importantissimo, ma non rappresenta il punto di arrivo, piuttosto il punto di partenza che ha fatto dell’Italia, il primo Paese ad aver identificato la riforma dell’assistenza psichiatrica[23]. Pensare, naturalmente, che Basaglia – e la sua legge - rappresentino l’unica responsabilità sociale di attuazione, è un equivoco. Non bisogna mai dimenticare che la prevenzione (così come la cura) non è, e non può essere, delegata solo ai servizi, agli operatori, ma deve partire da noi stessi.
Il cambiamento è in costante movimento e non può fermarsi e soprattutto, diceva Basaglia ,“deve partire da ciascuno di noi” [24].
Come sostenuto da Lowen e altri autori [25, 26, 27]: “il corpo e la mente non sono separati. Sono uno lo specchio dell’altro.” Eppure, ci muoviamo unicamente con l’intenzione di curare il corpo [28], cadendo nell’illusione che la mente possa fare da sé, o peggio, che non abbiamo bisogno di aiuto perché rivolgersi a qualcuno, in questo caso, vorrebbe dire sentirsi fragile, ammettere le proprie vulnerabilità, che la società tende a negare. Se riuscissimo ad ammettere che sì, a volte nella vita, si ha bisogno di aiuto, o di una guida che ci aiuti a districare il gomitolo emozionale dentro cui ci siamo invischiati, allora sarebbe già un passo in avanti verso quella che chiamiamo “prevenzione”.
Purtroppo, la rincorsa alla cura della sola immagine [29] e l’introduzione dei social network, che non costituiscono la causa ma amplificano il fenomeno, fanno sì che venga dato sempre meno spazio nella nostra cultura, ai sentimenti, alle relazioni vere (e non virtuali), con un conseguente dilagare di individualismo e narcisismo, a discapito dei reali bisogni (che sono basati sulle emozioni e non sulle immagini) e di una cura alla costruzione di legami duraturi e profondi.
Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia ci consente di essere sempre in “connessione” con gli altri, eppure la condizione esistenziale più diffusa è il sentimento di solitudine [30, 31]. Realtà [32] che richiama la necessità di una controrivoluzione emotiva, che riporti alla ribalta l’esperienza autentica del contatto con l’altro, esperienza che non potrà mai essere sostituita da una virtuale.
L'incitamento, suggerito anche da Basaglia, sembra essere quello di continuare ad attuare la propria libertà nella valorizzazione della propria soggettività [33], per continuare a interrogarci su quel punto fondamentale che concerne il rapporto tra malattia mentale e libertà [34]. Bisogna puntare alla promozione di un’intelligenza emotiva [35], che miri alla condivisione relazionale di sensazioni, emozioni e sentimenti per imparare strategie efficaci e funzionali per far fronte a situazioni stressanti e di crisi. Coltivando una cultura (individuale, di gruppo e comunitaria) di reciproco aiuto e di resilienza.
Resilienza vuol dire proprio imparare a rialzarsi quando si cade, reimparare a coltivare sane emozioni, per disabituarsi dalla regola che spopola nella nostra era del “tutto e subito” e dell’immediatezza. Imparando a non vedere la persona con disagio mentale come altro-da sé ma come persona dignitosa e meritevole di cura e attenzioni. Questo concorrerebbe alla riduzione dello stigma.
Ciò che serve recuperare non è il malato mentale, ma l’intera condizione esistenziale in cui tutti siamo immersi, e di cui alcuni diventano portavoce.