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Chiara Miriam Maddalena
pubblicato il 04-05-2020

Nanoplastiche: un potenziale rischio per le cellule ossee?



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La ricerca di Lavinia Casati punta a valutare l’impatto delle nanoplastiche sull’accrescimento scheletrico e sulle malattie delle ossa legate all’invecchiamento

Nanoplastiche: un potenziale rischio per le cellule ossee?

La presenza di plastiche negli ecosistemi acquatici e marini di tutto il mondo rappresenta un grande problema per la salute dell’ambiente e degli esseri viventi. Gli oggetti in plastica, una volta rilasciati o abbandonati nell’ambiente, subiscono un processo di frammentazione causato dall’esposizione ai fenomeni atmosferici e alla luce solare. Questa degradazione produce frammenti invisibili con dimensioni nell’ordine dei micrometri (un milionesimo di metro) che possono essere assorbite dagli esseri viventi. Le nanoplastiche, a causa della porosità tipica del materiale, sono in grado di assorbire molti inquinanti e anche l’uomo è esposto attraverso la catena alimentare: l’impatto di questi materiali sulla salute umana, tuttavia, è ancora poco conosciuto e mancano studi approfonditi.

Uno dei rischi potenziali legati alle nanoplastiche sembra essere l’alterazione della funzionalità ossea durante l’età pediatrica e nella terza età. Lavinia Casati, ricercatrice l’Università degli Studi di Milano, cercherà di approfondire gli effetti di questi micromateriali sulle componenti cellulari dell’osso grazie al sostegno di una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.


Lavinia, raccontaci il tuo progetto. Di cosa ti occuperai?

«Mi occuperò di studiare i meccanismi molecolari, genetici ed epigenetici (modificazioni temporanee al Dna in risposta agli stimoli esterni, ndr) coinvolti nel rimodellamento osseo. I risultati permetteranno di valutare l’impatto delle nanoplastiche sull’accrescimento scheletrico in età pediatrica e sulle malattie legate all’invecchiamento osseo, come l’osteoporosi».

Cosa ti ha spinta a puntare su questa linea di ricerca?

«Questo progetto nasce dal mio interesse a capire come l’ambiente esterno sia in grado apportare modifiche al nostro organismo. In particolare, mi concentrerò proprio sui nuovi inquinanti ambientali, come le nanoplastiche, che sono in grado di arrivare all’uomo attraverso la catena alimentare».


Cosa sappiamo oggi a proposito degli effetti delle nanoplastiche a livello delle cellule ossee?

«Dai pochi studi effettuati si evince che le nanoplastiche inducono stress ossidativo, meccanismo coinvolto nell’alterazione della funzionalità ossea. Lo scopo del nostro progetto è quello di valutare più approfonditamente il loro effetto sulle componenti cellulari dell’osso come osteoblasti, osteociti e osteoclasti, analizzando la vitalità e la mortalità cellulare associate alla loro esposizione».


Avete qualche risultato preliminare?

«In base ai nostri primi dati, possiamo affermare che le nanoplastiche sono in grado di passare la membrana cellulare degli osteoblasti e di localizzarsi all’interno dove, come primo effetto, sembrano rallentare la progressione di crescita delle cellule».

Prospettive a lungo termine?

«Questo progetto permetterà di focalizzare l’attenzione sull’eventuale impatto della plastica dispersa nell’ambiente sia sull’accrescimento scheletrico in età pediatrica che su patologie dell’osso legate all’invecchiamento come l’osteoporosi».

Lavinia, hai qualche episodio particolare che ti è capitato durante il tuo lavoro?

«Una sera, ero nel bel mezzo di un esperimento e non mi sono resa conto del tempo che passava. Ogni tanto guardavo fuori dalla finestra e, vedendo ancora chiaro, pensavo non fosse tardi. Quando mi sono resa conto che era diventato buio, poiché era appena entrata in vigore l'ora legale, mi sono accorta che dipartimento non c’era più nessuno e che ero rimasta chiusa dentro. Con fatica, sono riuscita a rintracciare il mio capo che, fortunatamente, ha preso bene l’imprevisto, salvo dileggiarmi un po’ dicendomi che mi ero fatta prendere troppo dal sacro fuoco della scienza. Se ci ripenso, me ne vergogno ancora».

 

Sei mai stato all’estero a fare un’esperienza di ricerca?

«Sì, durante il dottorato tra il 2008 e il 2009. Sono rimasta in Europa, in Spagna e, per 14 mesi, ho lavorato presso l’Istitut Català di Barcellona. Durante questa esperienza, ho avuto l’occasione di partecipare a un programma di ricerca su epigenetica e biologia del cancro, argomenti che mi hanno sempre appassionata».

 

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«Mi sono innamorata della Spagna e del suo modo di fare ricerca. Ho scoperto un mondo completamente diverso. Il progetto sul quale lavoravo era soltanto mio e, nonostante fossi appena arrivata, lo portavo avanti in autonomia. Diversamente da come funziona in Italia, lì ho avuto a disposizione fin da subito i miei strumenti personali, i miei spazi, un piccolo budget settimanale e un magazzino a cui attingere liberamente. Oltre ad aver appreso tanto sia a livello scientifico sia umano, questa esperienza mi ha permesso di sviluppare una mia autonomia scientificaorganizzativa di laboratorio. Non vedo nessun aspetto negativo se non, inizialmente, essere spaventata da tutta questa responsabilità».

 

Cosa ti ha spinto a scegliere la strada della scienza?

«Ho sempre avuto una curiosità innata e una grande passione per la scienza, sicuramente alimentata da mio nonno, che mi faceva giocare con un vecchio microscopio appartenuto a mia mamma. Inoltre, la prematura  scomparsa della mia nonna materna e del mio nonno paterno, entrambi malati di tumore, mi hanno stimolato a voler capire le cause delle malattie. Pertanto, non posso individuare un momento che mi ha fatto capire che la mia strada sarebbe stata quella della scienza ma, piuttosto, di aver affrontato un percorso iniziato fin da piccola».

 

Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno invece da dimenticare.

«Sicuramente, il momento in cui ho scoperto di avere vinto la borsa di studio Cariplo Giovani e quella di Fondazione Umberto Veronesi. Ho provato una soddisfazione incredibile che mi ha dato la giusta spinta per perseverare a seguire la mia passione. Vorrei dimenticare, invece, le fratture con i colleghi e le divisioni dettate dall’invidia».

 

Cosa ti piace di più del tuo lavoro?

«La sfida continua, la discussione e il confronto. Il potermi meravigliare, ogni giorno, di quanto l’organismo vivente sia affascinante, sofisticato e complesso».

 

E cosa invece eviteresti volentieri?

«La burocrazia, la precarietà e la continua ricerca di finanziamenti per ottenere uno stipendio a fine mese».

 

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Mi vengono in mente: meraviglia, stupore, sfida, passione e arrivare dove nessuno è mai giunto».

 

Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?

«La giornalista scientifica o la professoressa di archeologia».

 

In cosa, secondo te, può migliorare la scienza e la comunità scientifica?

«Dovremmo puntare di più sulla divulgazione e sulla comunicazione della scienza. Io, nel mio piccolo, cerco di disseminare la voglia di scienza a partire dai più piccoli, proponendo progetti nelle scuole materne. Credo che sia importante far capire ai bambini, che sperimentano per primi la meraviglia nei confronti della natura, la bellezza del fare ricerca».

 

Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?

«Purtroppo penso che in Italia il sentimento antiscientifico oggi sia molto forte. Percepisco tutt’oggi un sentimento di scetticismo nei confronti dello scienziato».

 

Lavinia, hai famiglia?

«Sì, sono una mamma e moglie felice».

 

Cosa fai nel tempo libero?

«Mi piace leggere, viaggiare “on the road”, ricamare e lavorare il panno lenci. Inoltre partecipo attivamente, come volontaria, alla vita scolastica della scuola dell’infanzia dei miei bambini».

 

Una cosa che vorresti assolutamente vedere almeno una volta nella vita.

«Vedere l’aurora boreale e assistere al concerto di capodanno della Filarmonica di Vienna».  

 

Un ricordo a te caro di quando eri bambino.

«Le torte preparate con mia mamma e tutti i momenti trascorsi insieme».

 

Ricordi volentieri una «pazzia» che hai fatto?

«Passare il test per l’ammissione a Medicina e Chirurgia con un ottimo risultato e poi immediatamente dopo decidere di iscriversi a Biotecnologie: ci tengo però a dire che è una pazzia che rifarei».

 

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Sostenere la ricerca scientifica è fondamentale: senza ricerca scientifica un paese è destinato a morire. Senza ricerca non c’è progresso. Citando una battuta memorabile del capitano Kirk nella serie Star Trek, se non si sostiene la ricerca come si fa “Ad andare là, dove nessuno è mai giunto prima?”».



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