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L'esperto risponde
Fabio Di Todaro
pubblicato il 22-04-2020

Dal plasma dei guariti una possibile cura per Covid-19



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Somministrando il plasma dei guariti nei pazienti affetti da Covid-19, la carica virale e i sintomi si riducono in pochi giorni. Prosegue la sperimentazione in quattro ospedali della Lombardia

Dal plasma dei guariti una possibile cura per Covid-19

«Al momento, non ci sono terapie efficaci per il Covid-19», hanno messo nero su bianco quattro ricercatori dell'Università del Texas in una revisione di studi pubblicata sul Journal of the American Medical Association. Alcuni dei farmaci impiegati per curare la malattia provocata dal Sars CoV-2 stanno dando risultati incoraggianti. Detto ciò, si tratta di cure sperimentali, che potranno essere eventualmente validate soltanto dopo aver registrato gli esiti degli studi clinici in corso. Tra queste, ce n'è una che sta calamitando l'attenzione degli specialisti. Prevede l'uso del plasma dei convalescenti da Covid-19 che, se infuso in persone alle prese con la malattia, determinerebbe un rapido miglioramento delle loro condizioni. Questo è quanto si evince dalle prime settimane di sperimentazione in corso in quattro ospedali della Lombardia: il Policlinico San Matteo di Pavia e i presidi Carlo Poma di Mantova, Maggiore di Lodi e Asst di Cremona.

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Non è un caso che - su input di Cesare Perotti, il direttore del servizio di immunoematologia e medicina trasfusionale della struttura di Pavia - il primo test di questo tipo sia partito da una delle aree più colpite dal coronavirus, alla fine di febbraio. Considerando il rapido aumento dei contagi determinato da Sars-CoV-2, l'aggravamento improvviso delle condizioni di alcuni pazienti e l'assenza di trattamenti specifici efficaci, i medici lombardi hanno deciso di «guardare al futuro riscoprendo il passato», per dirla con Massimo Franchini, a capo della struttura di medicina trasfusionale dell'ospedale Carlo Poma di Mantova. E cioè: prelevare il plasma dei pazienti guariti per inocularlo in coloro che sono alle prese con il Covid-19. Una considerazione nata ricordando quanto già fatto in altri Paesi in occasione dell'epidemie di Sars, Mers, H1N1 ed Ebola, oltre che in Cina all'inizio dell'anno. E tenendo a mente quanto ribadito dall'Organizzazione Mondiale della Sanità: «L'utilizzo della plasmaterapia è ammesso quando ci si ritrova di fronte a malattie gravi per le quali non esistono trattamenti farmacologici efficaci».


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I risultati registrati tra i primi dei 49 pazienti coinvolti nello studio sono incoraggianti. Il plasma dei pazienti convalescenti - definito iperimmune - starebbe funzionando come auspicato. «Il plasma delle persone guarite dall'infezione contiene gli anticorpi specifici contro il virus Sars-CoV-2 - dichiara Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Centro Nazionale Sangue -. Questi, una volta infusi nei pazienti sintomatici, determinano una rapida risposta terapeutica». A pensarci bene, dunque, un gesto di grande solidarietà compiuto da chi ha vinto la battaglia potrebbe salvare la vita a chi è invece nel bel mezzo del conflitto. Secondo Giuseppe De Donno, primario del reparto di pneumologia dell'ospedale Carlo Poma di Mantova, «il plasma, in questo momento, è l’unico farmaco specifico contro Covid-19». Nella pratica, nell'attesa di un vaccino che non potrà arrivare prima di un anno, si fa di necessità virtù. «Inoculando gli anticorpi dei guariti nelle persone malate, è come se somministrassimo l'analogo di un vaccino», aggiunge lo specialista.

CHI SOTTOPORRE AL TRATTAMENTO

Lo studio in corso prevede che a beneficiare del trattamento - nei prossimi giorni sarà esteso anche agli ospedali del Veneto, dell'Umbria e della Toscana - siano i pazienti in cui la malattia ha intrapreso il decorso più grave. Ovvero: coloro che hanno già sviluppato la sindrome da distress respiratorio acuto, la manifestazione più grave della polmonite interstiziale determinata dal coronavirus. E che, di conseguenza, richiedono un supporto meccanico  per respirare. «Quello che stiamo vedendo è che, una volta infuso il plasma, si registra una riduzione della carica virale e un miglioramento dei sintomi nell'arco di poche ore», aggiunge Franchini. Come accaduto a oltre 20 pazienti, tra cui Pamela Vincenzi: la prima donna incinta affetta da Covid-19 e trattata con il plasma dei guariti. Il protocollo prevede la somministrazione di 250 millilitri di plasma per un massimo di tre volte in una settimana ai pazienti ricoverati in terapia intensiva (da non più di dieci giorni). «Ma vorremmo capire anche se esistono dei margini per estendere il trattamento ai pazienti in pericolo di vita, a coloro che sono ricoverati nei reparti di malattie infettive e pneumologia e al personale sanitario, come possibile opportunità per ridurre il rischio di contagio», afferma fiducioso Franchini.


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Nel caso in cui i primi risultati dovessero essere confermati, la richiesta di donatori di plasma iperimmune è destinata a crescere nelle prossime settimane. «Il gesto - precisa Liumbruno - dovrà comunque rimanere volontario e non remunerato». Al momento, negli ospedali lombardi, si stanno selezionando gli uomini maggiorenni con alle spalle una diagnosi di Covid-19 (con tampone), guariti (con doppio tampone negativo), asintomatici (da almeno due settimane) e idonei alla donazione di sangue. Una volta individuati e registratane la disponibilità, il personale sanitario li sottopone a un nuovo tampone e al test sierologico: passaggi necessari per avere la conferma che l'infezione è ormai alle spalle. Più serrato del solito è anche il meccanismo dei controlli a valle della donazione, che in questo caso prevede la ricerca degli anticorpi diretti contro i virus dell'epatite A ed E e del Parvovirus B-19. Oltre, naturalmente, al dosaggio degli anticorpi neutralizzanti per Sars-CoV-2. L'obbiettivo è quello di reclutare sempre più ex pazienti, per far fronte a un possibile aumento della richiesta (vincolato al consolidamento delle prime evidenze). Le immunoglobluline, con un'efficacia protettiva di 3-4 settimane, potrebbero rappresentare una soluzione provvisoria in attesa dell'esito delle sperimentazioni degli altri farmaci e di un vaccino. Al momento, in nessun centro trasfusionale italiano vi è la possibilità per tutti gli altri donatori (non ammalatisi di Covid-19) di essere sottoposti a uno screening finalizzato a candidarsi come donatori.
 

Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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