Chiudi
Cardiologia
Serena Zoli
pubblicato il 01-02-2021

Centenari più «resistenti» a Covid-19? Sì, rispetto agli 80enni



Aggiungi ai preferiti

Registrati/accedi per aggiungere ai preferiti

L'infiammazione cresce nel corso della terza età ed è spesso la causa dell'aggravarsi della Covid-19. Ma oltre i 100 anni il trend si inverte: ecco perché

Centenari più «resistenti» a Covid-19? Sì, rispetto agli 80enni

I centenari sono più resistenti al Covid-19? Nei lunghi drammatici mesi in cui il coronavirus ha fatto strage di anziani, di tanto in tanto, qua e là, si è alzato un grido di vittoria. Il tal centenario - anzi, più spesso, la tal centenaria - ce l’ha fatta. Ha preso il coronavirus e l’ha battuto. Con cure neanche tanto complesse. La decana sembra essere la spagnola Maria Branyas che è rimasta infettata a 113 anni e ne è uscita alla grande. Ma i casi non sono affatto pochi e in testa figurano molte più donne.


Covid-19: in Italia 1 vittima su 6 aveva una demenza

Abbiamo a cuore i pazienti più fragili

Abbiamo a cuore i pazienti più fragili

Non fermare la ricerca


Scegli la tua donazione

Importo che vuoi donare


GLI UOMINI SONO DI MENO, MA PIÙ RESISTENTI

La loro nota maggiore sopravvivenza, che storicamente le rende più resistenti nelle carestie e nelle epidemie, si conferma fino al limite estremo, dunque? «No, la faccenda non è così semplice: sono più resistenti i centenari maschi», obietta Claudio Franceschi, uno dei maggiori esperti di persone oltre il secolo d’età, professore emerito di immunologia all’Università di Bologna. E spiega che esiste un «paradosso della sopravvivenza», per cui verso gli 80 anni le donne sono le più resistenti ai problemi di salute. Poi, dopo quella soglia, diventano più resistenti gli uomini. Quelli che sono sopravvissuti fin lì, numero decisamente inferiore a quello femminile. «Per questo motivo anche in Italia i centenari maschi sono meno, un rapporto di 1 a 6 a favore delle donne, ma hanno una salute molto più buona, sia sotto il profilo fisico sia cognitivo-mentale - riprende Franceschi -. Le donne oltre il secolo risultano più fragili, più sensibili alle malattie. I loro coetanei arrivano a queste vette di età più robusti, anche nei confronti del Covid».


Anziani e Covid-19: la malattia fa meno paura agli uomini

L’INFIAMMAZIONE CHE AIUTA O CHE NUOCE

A questo punto bisogna parlare dell’«inflammaging», concetto e parola utilizzati per la prima volta proprio da Franceschi nel 2000. Il nome deriva dalla fusione di «inflammation» (infiammazione) e di «aging» (invecchiamento). L’infiammazione, spiega lo scienziato, è un fenomeno biologico necessario per la sopravvivenza: sotto l’attacco di un virus o un batterio, scatta l’infiammazione mobilitando il sistema immunitario in difesa. «A un certo punto ho notato che lo stato infiammatorio di base, cioè presente senza lo stimolo di batteri o altri agenti patogeni, aumenta con l’età in maniera considerevole e favorisce l’insorgenza di tutte le malattie di cui si muore comunemente, disturbi cardiovascolari, tumori, problemi respiratori cronici». Continua Franceschi: «Succede così che quello che aiuta da giovani, l’infiammazione, diventa negativo da vecchi. Cambia di segno».

Pandemia a due facce: decessi in aumento non soltanto per Covid-19

L’EVOLUZIONE NON PREVEDE LA VECCHIAIA

Come mai? Il professore bolognese invita a un viaggio nell’antichità. L’homo sapiens in genere non viveva oltre l’età riproduttiva, la gran parte moriva tra i 25 e 35 anni, per cui allora l’aspetto negativo della risposta infiammatoria non si presentava. L’evoluzione non ha avuto tempo, si può dire, per occuparsi di questa fase successiva all’età riproduttiva. Anche perché la vecchiaia è qualcosa di molto recente: basta pensare all’età media di inizio Novecento e a quella attuale. «Succede così che le anziane abbiano un’infiammazione di base più alta, invece nelle centenarie e centenari si scopre un’infiammazione non così elevata quanto ci si aspetterebbe. Quindi hanno un'«inflammaging» più basso rispetto alle previsioni». Colpa dell'«inflammaging», dunque, se il Covid-19 ha fatto strage tra gli anziani? «Sì - è la risposta - perché questa condizione apre le porte alle malattie cardiovascolari e a tutte le altre che hanno esito infausto. Tant’è che c’è chi ha proposto: se negli anziani con alto «inflammaging» noi abbassiamo questo valore, non li rendiamo meno suscettibili al coronavirus?».

LA SOLITUDINE È NEMICA
DELLA LONGEVITÀ?

SOPRA I 100 ANNI SIAMO TUTTI DIVERSISSIMI

Altro tratto specifico dei centenari: sono diversissimi l’uno dall’altro, nell’estremo invecchiamento sviluppano una enorme eterogeneità. Guai a generalizzare, dunque. Dopo il tuffo nei primordi dell’umanità, Franceschi invita a un tuffo nelle origini della psicoanalisi. A un concetto di Jung. Parlava di un principium individuationis per cui più si cresce, più si diventa vecchi e più si diventa esseri a sé. «Così accade pure nella biologia. I centenari sono un clamoroso caso di eterogeneità. Ai 100 e oltre ognuno arriva diverso dall’altro forgiato com’è dalla somma di tutti i tantissimi eventi che ha vissuti: esperienze di vita come esperienze di malattie. Questo fa sì che alcuni giungano al contagio da Covid robustissimi ed altri debolissimi», conclude lo specialista. Un altro paradosso della sopravvivenza. In Italia i centenari sono circa 15.000.


Serena Zoli
Serena Zoli

Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.


Articoli correlati


In evidenza

Torna a inizio pagina