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Alessandro Vitale
pubblicato il 15-02-2024

Epigenetica e osteosarcoma: nuove prospettive grazie al machine learning



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Le modificazioni epigenetiche sono fondamentali per la diagnosi dell’osteosarcoma giovanile: dalla bioinformatica un’opportunità di studio innovativa. La ricerca di Sara Patrizi

Epigenetica e osteosarcoma: nuove prospettive grazie al machine learning

Lo sviluppo del cancro è un fenomeno complesso, spesso legato alla presenza di mutazioni del DNA che possono modificarne la funzione. Esistono tuttavia importanti modifiche che non riguardano direttamente il DNA ma la sua “impalcatura”, che lo avvolge e lo sorregge, chiamate modifiche epigenetiche. Le modifiche epigenetiche non sono solo cambiamenti strutturali, ma possono influenzare l’espressione dei geni – ovvero “quanto” una specifica porzione del DNA verrà trascritta in una proteina pronta a svolgere il suo compito. Le modifiche epigenetiche sono perfettamente normali nelle cellule, sebbene, in alcuni casi, esistano delle alterazioni collegate all’insorgenza di tumori. Un esempio è legato alle cosiddette isole CpG, ovvero lunghe porzioni del DNA che presentano la ripetizione delle basi azotate citosina-guanina sullo stesso filamento. Le isole CpG possono subire una modifica epigenetica chiamata metilazione: questa condizione è comune in diversi casi di osteosarcoma, ma esistono differenze tra paziente e paziente che potrebbero essere importanti per il percorso terapeutico da proporre.

Sara Patrizi è biotecnologa e ricercatrice presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, dove si occupa di modelli computazionali per l’analisi dell’osteosarcoma infantile: il suo lavoro verrà sostenuto da Fondazione Veronesi per il 2024 grazie a una borsa di ricerca dedicata.

 

Sara, come nasce il vostro lavoro?

«Il progetto consiste nello sviluppo di un modello di machine learning per i sarcomi dei tessuti molli pediatrici (un programma informatico in grado di eseguire una specifica analisi, migliorando la sua precisione all’aumentare dei casi analizzati, N.d.R.) basato sulla metilazione del DNA. Lo scopo finale è migliorare la diagnosi per questi tumori pediatrici e l’idea nasce da un lavoro iniziato nel nostro ospedale nel 2019, che consiste nel migliorare e integrare un “classificatore” di sarcomi già sviluppato da un gruppo di ricerca tedesco».

Come intendete portare avanti il progetto?

«Abbiamo osservato che il classificatore è stato in grado di caratterizzare (identificare e analizzare, N.d.R.) con alta precisione il 66% dei casi tra i nostri pazienti. Abbiamo quindi scelto di utilizzare i nostri casi pediatrici per sviluppare un nuovo modello di machine learning, poiché ci aspettiamo di ottenere predizioni ancora più accurate, specialmente per le tipologie di sarcoma tipiche dell’infanzia».

Perché avete scelto questa linea di ricerca?

«Ci siamo orientati su questa linea perché è già noto che ogni tumore ha la sua inconfondibile carta di identità, una “firma” di metilazione, e vorremmo approfondire le tipologie di metilazione per i sarcomi ancora poco studiati. Porteremo avanti il progetto continuando a raccogliere campioni di tessuti di sarcomi pediatrici, studiandone il profilo di metilazione e mettendo a punto i parametri migliori per “allenare” il modello di machine learning, così che in futuro possa restituirci informazioni sui nuovi casi che si presenteranno».

Prospettive per il futuro?

«Le isole di metilazione che definiscono ciascun osteosarcoma (sottotipo) potranno essere ulteriormente approfondite, per identificare l’espressione genica dei diversi tumori, ovvero quali geni risultano “accesi” o “spenti”. Questa mappatura è fondamentale nell’ottica della medicina di precisione: permetterà di analizzare le diverse cellule che compongono il tumore, identificare quelle che alimentano la sua crescita (come le cellule staminali tumorali) e “bersagliare la cellula d’origine” come già avviene oggi nei tumori del sangue».

Sara, sei mai stata all’estero per lavoro?

«La pandemia è arrivata proprio durante il mio secondo anno di dottorato, impedendomi quindi di partecipare a programmi universitari per andare all’estero. In seguito, ho preferito concentrarmi sulla mia carriera e sul trovare lavoro in Italia. Tuttavia, ora mi piacerebbe passare qualche mese da qualche parte nel Nord Europa per imparare qualcosa di nuovo nel campo della bioinformatica».

Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?

«Ho deciso di diventare una ricercatrice perché mi hanno sempre affascinato la biologia e la genetica. Ho capito di aver scelto la strada giusta durante il mio primo tirocinio: anche quando tutti gli esperimenti andavano male il laboratorio restava comunque il mio posto preferito».

Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno da dimenticare.

«Ricordo la prima volta che ho fatto una presentazione agli studenti di un corso universitario tenuto dal mio relatore di dottorato: essere dall’altro lato della cattedra e vedere i ragazzi che mi seguivano attentamente è stato davvero incoraggiante. Vorrei invece dimenticare il lockdown e la sensazione di impotenza nel cercare di portare avanti le analisi dei miei dati senza poter avere un confronto con i colleghi».

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Spero di continuare nel campo in cui sono ora, di avere l’opportunità di partecipare a pubblicazioni importanti e di avere un contratto a tempo indeterminato».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Il fatto che c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«La burocrazia».

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«La mia professoressa di scienze delle superiori e la sua passione nello spiegarci le ultime novità scientifiche».

Come rispondi quando ti chiedono che lavoro fai?

«Rispondo “biologa”, anche se sono una biotecnologa, che fa la bioinformatica, ma è iscritta all’albo dei biologi!».

Qual è per te il senso profondo che dà un significato alle tue giornate lavorative?

«La consapevolezza che dietro i numeri e le tabelle su cui lavoro ogni giorno ci sono dei bambini e delle famiglie che soffrono».

Cosa fai nel tempo libero?

«Nel tempo libero studio danza classica e canto».

Quando è stata l’ultima volta che ti sei commossa?

«Quando ho salutato i miei colleghi di Trieste prima di tornare a Roma dopo la fine del dottorato: anche se sapevo di aver fatto la scelta giusta, ormai erano diventati una seconda famiglia».

Sei felice della tua vita?

«Sì, perché sto vedendo i frutti del mio impegno».

La cosa che più ti fa arrabbiare.

«Essere trattata con sufficienza».

Un ricordo a te caro di quando eri bambino.

«Quando andavo a fare la vendemmia insieme ai miei genitori, nonni, zii e cugini».

Sara, prima di salutarci: perché è importante donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Donare a sostegno della ricerca scientifica è fondamentale, perché specialmente per applicare le tecnologie più innovative in campo oncologico serve un grande quantitativo di risorse».

E cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Vorrei ringraziarle di cuore, perché è solo grazie alla loro generosità che io e tanti miei colleghi possiamo portare avanti il nostro lavoro».

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