L'inquinamento può accelerare il decorso del tumore al polmone, se diagnosticato in fase precoce. Non esiste un limite espositivo al di sotto del quale il rischio svanisce
Tra l’inquinamento atmosferico e l’insorgenza del tumore del polmone c’è una relazione diretta, come stabilito dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (Iarc), che dal 2013 individua nella contaminazione dell’aria un fattore di rischio in grado di provocare nell’uomo un carcinoma polmonare.
Nessun dubbio, dunque, sul fatto che la presenza nell’atmosfera di ozono, biossido di azoto e soprattutto polveri sottili, legate all'inquinamento da traffico, siano in grado di avviare un processo anomalo di replicazione cellulare.
Ma vivere in un ambiente inquinato può anche aggravare il decorso di una neoplasia già diagnosticata e ridurre così la prospettiva di vita.
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INQUINAMENTO CRESCENTE NEI PAESI OCCIDENTALI
È quanto hanno dimostrato alcuni ricercatori statunitensi, in uno studio apparso sulle colonne della rivista Thorax. Partendo dalle certezze acquisite, e consapevoli del peggioramento dell’aria registrato negli ultimi venticinque anni, gli studiosi hanno indagato l’impatto dell’inquinamento sulla sopravvivenza di un gruppo di pazienti già consapevoli di avere un tumore polmonare: a prescindere dalla sua tipologia.
Gli scienziati hanno monitorato fino al 2011 il decorso della malattia di oltre 350mila persone (età media 69 anni) con una diagnosi di neoplasia polmonare effettuata tra il 1998 e il 2009. Oltre la metà di essi, ovvero il 53 per cento, aveva una malattia in fase avanzata, con una prospettiva di vita media pari a quattro mesi.
I dati relativi alla situazione ambientale delle zone in cui vivevano sono stati tratti dalle stazioni di monitoraggio dell’Agenzia governativa di protezione ambientale.
Quasi la metà dei partecipanti allo studio viveva ad almeno due chilometri di distanza dalla più vicina autostrada, mentre un paziente su dieci entro un raggio di trecento metri.
RISCHIO PIU’ ALTO PER I TUMORI IN STADIO PRECOCE
Incrociando i dati, i ricercatori hanno notato che un’esposizione più elevata all’ozono, al biossido di azoto e alle polveri sottili risultava associato a un rischio di morte più elevato e a più bassi tassi di sopravvivenza oltre i cinque anni.
Il rischio risultava accresciuto per i pazienti con un adenocarcinoma in stadio precoce: chi era stato esposto ad alti livelli di pm 2,5 (almeno 16 microgrammi per metro cubo) registrava una sopravvivenza media di 2,4 anni, rispetto ai 5,7 registrati nei pazienti esposti a più basse concentrazioni di polveri sottili (meno di dieci microgrammi per metro cubo). Il maggior aumento nel rischio di morte è stato registrato nei pazienti più esposti al particolato fine (inferiore a 2,5 millimetri). Ridimensionato è risultato il ruolo dell’inquinamento nei pazienti affetti da una malattia in fase avanzata.
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L’INSIDIA MAGGIORE VIENE DALLE POLVERI SOTTILI
I dati emergono da una ricerca osservazionale, che non restituisce alcuna certezza in merito al rapporto di causa-effetto tra l’esposizione ad alcuni inquinanti ambientali e il decorso della malattia polmonare. Anche perché, come spiegato dagli autori dello studio, «nell’indagine non sono stati presi in considerazione alcuni fattori di rischio importanti, come l’abitudine al fumo e il consumo di alcol».
Pur tuttavia, secondo i ricercatori statunitensi, alla base di quanto osservato ci sono dei meccanismi biologici plausibili, che sono gli stessi che hanno portato l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro a classificare l’inquinamento atmosferico con un cancerogeno certo per l’uomo: l’effetto tossico di alcuni componenti dell’inquinamento cittadino sul Dna, il maggior tasso di infiammazione polmonare che riscontra in chi abita in città, la persistenza dei fenomeni infiammatori a carico delle vie aeree nei pazienti che vivono in luoghi poco salubri. Le polveri sottili rappresentano l’inquinante che maggiormente può condizionare l’insorgenza o il decorso di una neoplasia polmonare, come dimostrato nel 2013 con lo studio ESCAPE: pubblicato sulla rivista The Lancet Oncology e citato tra le prove più solide nel rapporto diffuso tre mesi più tardi dallo Iarc. La ricerca, condotta in 17 Paesi europei, è servita a svelare che non esiste un limite espositivo al di sotto del quale il rischio svanisce.
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).