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Neuroscienze
Redazione
pubblicato il 12-12-2013

La depressione di Van Gogh non fu curata bene



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Ricostruito su documenti originali il tragico fallimento terapeutico di tre psichiatri che non compresero il male oscuro del grande pittore

La depressione di Van Gogh non fu curata bene

Van Gogh si suicidò perché i tre psichiatri che l’ebbero successivamente in cura non seppero guardare nella sua angoscia? Un libro (Van Gogh, psychologie d’un génie incompris) del medico e scrittore François-Bernard Michel, già professore della facoltà di medicina del’Università di Montpellier, ha ricostruito su documenti originali, trovati negli archivi ospedalieri e universitari, la storia tristissima di un totale fallimento dei rapporti tra medico e paziente. E’ vero che la psichiatria dell’epoca non aveva ancora identificato il disturbo bipolare di cui pare soffrisse Van Gogh, è vero che non erano stati messi a punto i farmaci timo-regolatori, ma secondo Michel i tre medici  che ebbero in cura il grande pittore dal 1888 al 1890, con l’insufficienza del loro ascolto aggravarono le carenze della psichiatria del secolo. Da documenti di archivio, tutti e tre i medici risultano essere stati a suo tempo studenti più che mediocri.

LA MUTILAZIONE DELL’ORECCHIO - Il primo fu Jean-Felix Rey, giovane interno dell’ospedale di Arles. Non era ancora medico, ma era completamente dedito ai suoi malati, e pieno di empatia e di generosità. Doti che non bastano, purtroppo. Prese in carico Vincent Van Gogh dopo il drammatico episodio dell’orecchio che il pittore si tagliò con un rasoio dopo una violenta lite con Paul Gauguin. Di fronte a un uomo tormentato dall’angoscia di sprofondare nella follia, il medico fu rassicurante e ottimista. Troppo ottimista. Rintracciò le radici del male nell’abuso di assenzio, e diagnosticò una «sovraeccitazione passeggera». A una lettera angosciata di Van Gogh, rispose: «No, voi non siete pazzo!»

LA FOLLIA - Ma ci furono ricadute di follia, e Rey non poté evitare il ricovero del suo paziente, che fu recluso in un asilo per alienati mentali a Saint-Remy-de-Provence (1889-90), e privato della pipa, dei libri e della pittura. Dirigeva l’asilo il dottor Théophile Peyron , che l’autore del libro definisce crudamente «un bottegaio della medicina». Questo secondo psichiatra si era laureato con una tesi nichilista, in cui sosteneva che la demenza è incurabile, e che qualunque cosa si faccia, le facoltà intellettive si degradano fino al giorno della morte. La follìa, si può solo sorvegliarla.  Minacciò Van Gogh di chiuderlo a chiave in camera, e restò impermeabile alla sua accorata protesta: «Rinchiudermi? E perché? Io non ho fatto male a nessuno. Questo asilo mi ha completamente abbrutito, mi fa disperare di me e della mia pittura.»

IL SUICIDIO - Il terzo medico è il dottor Paul Gachet. Ha fatto la sua tesi di laurea sulla malinconia (oggi la chiameremmo depressione), e la diagnostica a Van Gogh, che è tornato in famiglia. Il pittore ama in Gachet la malinconia che glielo rende fraterno, gli fa un malinconico ritratto. Crede ancora nei medici? No. Infatti scrive al fratello Theo: «I medici non possono fare granché, soprattutto se si parla dei rimedi che essi non hanno. Ma la cosa che potrebbero e dovrebbero dare, è una stretta di mano più dolce e più cordiale di molte altre mani.» Dopo un diverbio, il pittore minaccia il medico con una pistola. Il dottore, che non aveva intravisto il pericolo di suicidio nella profonda malinconia del suo paziente, non si allarma nemmeno della  pistola. Ed è con questa pistola che Vincent Van Gogh si spara al cuore, il 29 luglio 1890.

Antonella Cremonese


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