Ma perché si permette che la boxe uccida l’avversario?
Chi ama la boxe è impermeabile alle proteste, e chi non l’ama guarda al pugilato da distanze interstellari. Difficile attirare attenzione e sensibilità su questo argomento, ma io ci provo:
Chi ama la boxe è impermeabile alle proteste, e chi non l’ama guarda al pugilato da distanze interstellari. Difficile attirare attenzione e sensibilità su questo argomento, ma io ci provo:
vi sembra giusto morire nel fiore degli anni, per lesioni al cervello provocate dai colpi alla testa inflitti dall’avversario? Il ko è in sostanza un trauma cranico violentissimo, e non sono poche le volte che spedisce in coma. Forse non molti sanno che negli ultimi cento anni di boxe (ma perché la chiamano “noble art”) sono stati oltre 500 i pugili morti a causa dei colpi presi in combattimento.
L’ultima tragedia è successa pochi giorni fa, a un ragazzo di 26 anni, il pugile messicano Francisco Leal, detto Frankie. Finito al tappeto all’ottavo round, dopo tre giorni di coma è morto per emorragia cerebrale all’ospedale di San Diego. Per decisione della giovane moglie, i suoi organi sono stati donati, con l’intenzione di salvare la vita di altre persone.
Ma intanto Frankie è morto, ed è morto per l’unico sport che ha come finalità quello di far male all’avversario. Si muore e si può morire nelle gare automobilistiche di formula 1, nello sci, nel ciclismo (come accadde a Serse Coppi, il fratello del grande Fausto), nelle gare di motoscafo, nel motociclismo, nell’alpinismo. Ma tutti questi sport e gli altri ancora sono puntati a un risultato di vittoria che non implica il danno dell’atleta, anzi lo vuole evitare.
Il pugilato è invece l’unico sport che si propone come specifico obiettivo il danneggiamento massiccio. Tutti gli spettatori che stanno intorno al ring possono vedere come i due avversari si massacrano round dopo round, e a volte (scusate il particolare pulp) la prima fila riceve addirittura addosso gli schizzi di sangue.
Non è molto diverso dalle lotte tra gladiatori che consideriamo espressione di un’epoca di barbarie.
Per questa ragione, anni fa l’Associazione medica mondiale propose l’abolizione del pugilato, e si spinse fino a mettere in forse la liceità della presenza di un medico a bordo ring. Della proposta di abolizione non se ne fece niente (era scontato, visti i grandi interessi in ballo) e logicamente il medico fu mantenuto: avendo la facoltà di fermare il combattimento, dà almeno una piccola garanzia contro un assassinio tra applausi.
Ma il colpo micidiale del ko, improvviso e imprevedibile, non aspetta il permesso del medico, e provoca disastri nel cervello di chi lo subisce. Avete mai letto di quei bimbi che finiscono in coma perché un genitore li ha scossi violentemente? Per un pugile colpito alla testa il meccanismo è uguale, ma è molto peggio.
Così (e gli annali dello sport dovrebbero vergognarsene) muoiono e continuano a morire i giovani come Francisco Leal, un mingherlino di 55 chili, già sfidante al titolo mondiale dei pesi supergallo. Ragazzi arrivati sul ring dalle più misere periferie. L’anno scorso Frankie era già finito in ospedale per ko tecnico, e gli avevano consigliato di appendere i guantoni al chiodo. Ma poi aveva voluto tornare a combattere, anche perché da quello sport guadagnava di che vivere, e le «autorità sanitarie» (ma quali?) glielo avevano consentito.
Addio Frankie, povero ragazzo e ragazzo povero.
Umberto Veronesi